«Votare per l'elezione del capo dello Stato non è un privilegio di casta, ma l'adempimento di un dovere costituzionale. L'indignazione da temere non è quella dei cittadini che si potrebbero scandalizzare per il fatto che vengano prese misure speciali per consentire ai rappresentanti di adempiere ai propri doveri d'ufficio, ma semmai quella opposta». È un appello in controtendenza quello che da giurista lancia Giovanni Guzzetta sulle pagine de Il Riformista, in vista del voto per il Quirinale.
Professor Guzzetta, la variante Omicron rischia di rimescolare carte e numeri dell'elezione del nuovo capo dello Stato.
«Partiamo dallo scenario che si va prefigurando: decine di parlamentari e delegati regionali potrebbero essere esclusi dalla decisione forse più importante per il buon funzionamento delle nostre istituzioni. La questione che andrebbe affrontata solo per trovare delle soluzioni tecniche che consentano a tutti i grandi elettori di votare in sicurezza è diventato un tema di conflitto politico».
Lei individua il rischio che possano prevalere calcoli e furbizie.
«L'impressione è che serpeggino tra i partiti calcoli sulla convenienza che, alle votazioni, partecipino, o meno, un cospicuo numero di elettori confinati. Ma c'è un altro fattore che pesa: la paura che qualsiasi decisione consenta di sciogliere questo nodo possa essere additata come l'ennesimo privilegio che la casta accorda a se stessa, a dispetto dei cittadini comuni. E non considero, per carità di patria, la saldatura delle due questioni ovvero la posizione di coloro che agitano pretestuosamente la paura delle piazze semplicemente per rafforzare le proprie valutazioni di convenienza».
Qual è la bussola che secondo lei dovrebbe guidare le decisioni regolamentari in questa fase?
«La capacità di guida e l'assunzione di responsabilità. Votare per l'elezione del capo dello Stato non è un privilegio di casta, ma è innanzitutto l'adempimento di un dovere costituzionale che i Parlamentari (e i delegati regionali) hanno assunto al momento della propria nomina. Come insegna la civiltà giuridica dall'epoca più antica, l'ufficio pubblico è innanzitutto un munus cioè un impegno. E il fatto che a quel munus sia associato un dono, cioè la titolarità di un potere, non fa di questo automaticamente un privilegio. Anzi il privilegio si ha proprio nel momento in cui quel dono è svincolato dal dovere, è rubato alla sua funzione e diviene un modo per soddisfare gli appetiti del singolo».
Lei quindi auspica un intervento last minute sui regolamenti?
«Non ci sono ragioni tecniche per impedire che i grandi elettori, che siano asintomatici, paucisintomatici o contatti stretti possano essere messi in condizione di partecipare a votazioni così decisive per la vita dello Stato. Bastano regole parlamentari e norme eccezionalmente derogatorie del regime del confinamento. Si fanno, e necessariamente, decreti-legge a raffica. Forse anche in questo caso bisognerebbe pensarci.
Se, in una situazione del genere, la politica non avesse un sussulto e continuasse a lucrare su stratagemmi e presunti (o reali) timori della piazza, non solo si dimostrerebbe drammaticamente inadeguata, ma confermerebbe tutti gli stereotipi di furbizia che l'hanno ridotta in questa situazione».
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