Mafia e Tangentopoli, torna Di Pietro

L'ex pm di nuovo in Parlamento all'Antimafia: stessi nemici contro me, Falcone e Borsellino

Mafia e Tangentopoli, torna Di Pietro
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Che ci azzecca Tangentopoli con le stragi di Capaci e Via d'Amelio? Lo ha spiegato Antonio Di Pietro, arrivato in commissione Antimafia con una borsa carica di documenti, lasciati alla presidente Chiara Colosimo. «Quando dirigeva gli Affari penali Giovanni Falcone ha seguito direttamente l'inchiesta Mani pulite, da lui passavano le richieste di rogatoria, mi diceva devi seguire il denaro, appalto per appalto, una rogatoria alla volta, fai il capo di imputazione e poi stralcia», rivela l'ex pm: «Al suo funerale parlai con Paolo Borsellino, adesso dobbiamo andare di corsa, dobbiamo fare presto, ci dicemmo. Entrambi avevano capito in che direzione indagare». Perché «Mafiopoli e Tangentopoli sono due facce della stessa medaglia», ribadisce l'ex leader dell'Italia dei Valori, che però nega di aver saputo del dossier mafia-appalti («né alcuno me ne aveva parlato allora», sottolinea), poi condensato nel rapporto del Ros frettolosamente archiviato dopo i funerali di Borsellino. «La Procura di Milano ha indagato eccome su mafia e appalti e sulla zona grigia emersa da quell'intreccio», insiste Di Pietro. Stessi nemici, stesso onore: chi ha fermato Borsellino con il tritolo ha fatto lo stesso con la toga grazie al dossieraggio. C'era un patto tra Palermo e Milano per evitare di pestarsi i piedi senza smettere di indagare: «Una parte del sistema imprenditoriale voleva comprare gli appalti in Sicilia ed è venuto a patti con la mafia? Sì. Non ho contestato il 416 bis ma ho trovato il coltello - sottolinea nella sua audizione, durata un'ora - mentre a Roma e Milano c'era un sistema appalti-politica con un faccendiere e un cartello, a Palermo c'era il tavolino, con un signore (Angelo Siino, ndr) che, come un giudice di pace assicurava che il 20% finisse alla cassa comune. Su questo stavo indagando». Poi Di Pietro accusa i Ros: «Siino era stato defenestrato da Filippo Salomone (fratello del pm che lo indagherà, ndr), cannai io ma pure loro». Sono passati più di 30 anni da quel dannato 1992 che ha riscritto la storia d'Italia, c'è una verità invocata da Fiammetta Borsellino e Fabio Trizzino sui due giudici, uccisi prima dalle maldicenze dei colleghi e del Csm che dal tritolo. C'è da capire il vero ruolo di Raul Gardini, morto suicida, i beneficiari dei miliardi della tangente Enimont, perché è stato ucciso Salvo Lima. Poi i depistaggi orchestrati dagli inquirenti di allora, come l'ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera che ha gestito il falso pentito Vincenzo Scarantino forse a suon di miliardi, trovati nei giorni scorsi sui suoi conti correnti (la moglie e la figlia sarebbero indagate, scrive Repubblica), c'è l'agenda rossa di Borsellino che per Vincenzo Ceruso nel libro La strage.

L'agenda rossa di Paolo Borsellino, era in procura a Palermo e poi è sparita, come ricorda il magistrato Salvatore Pilato. Altro che fantomatici mandanti e affascinanti congetture, il problema forse erano le coop rosse a braccetto con la mafia e pezzi di magistratura che remavano contro la verità.

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