Se siamo ostaggio degli spioni, che siano funzionari corrotti, ufficiali spregiudicati, dipendenti di banca spioni o semplici hacker, è anche colpa nostra. Password facili, telefonini a cui regaliamo tutto e computer lasciati accesi, che crackarli è un attimo. Prendete ad esempio Carmelo Miano, il pirata informatico 24enne arrestato dalla Procura di Napoli con l'accusa di aver violato i server del ministero della Giustizia, definiti dai pm partenopei (a loro volta spiati) una specie di colabrodo. Ieri davanti ai giudici del Tribunale del Riesame il suo legale Gioacchino Genchi ha chiesto per lui i domiciliari e il trasferimento delle indagini a Perugia: «Non può essere il capro espiatorio delle lacunose policy di sicurezza dei sistemi informatici istituzionali nei quali ha abusivamente acceduto», ammette il suo legale, secondo cui il suo assistito ha il merito «di avere contribuito a disvelarne la criticità». Se avesse voluto lasciare l'Italia, aveva soldi, mezzi e opportunità. Sapeva che l'avrebbero arrestato, ecco perché secondo il suo legale sarebbero sufficienti gli arresti domiciliari.
D'altronde a lui interessavano soltanto le indagini che lo riguardavano. Per questo aveva carpito le password delle mail di diversi pm, dice la Procura di Napoli, oltre a quasi tutte quelle dei magistrati che stavano indagando su di lui, da Roma a Gela e Brescia. E tra loro chi c'è? Nicola Gratteri, capo della Procura napoletana dopo anni in Calabria in prima fila contro la 'ndrangheta. Da lui, ad esempio, ci si sarebbe aspettata maggiore attenzione sulle password da usare. Leggendo la richiesta presentata da Genchi al Riesame si capisce come l'account nicola.gratteri@giustizia.it «aveva assegnato una password molto debole al proprio account email istituzionale, corrispondente al nome di una città capoluogo di provincia della Calabria, seguito con delle cifre riconducibili alla data di una verosimile ricorrenza». A tutela del super magistrato va detto che questo account era usato pochissimo da Gratteri, tanto che sulla casella arrivavano solo «diverse richieste di interviste di vari giornalisti, alcune circolari ministeriali e email che avevano come mittenti associazioni di categoria». Secondo l'hacker, che ai pm ha ammesso gran parte delle accuse, in quella casella non avrebbe rilevato «alcun dato di interesse». Il magistrato infatti «prediligeva in modo assai prudente altri canali di comunicazione più sicuri per le informazioni su indagini importanti e riservate».
Non così prudenti erano i suoi sottoposti come Claudio Orazio Onorati, pubblico ministero a cui Miano avrebbe sottratto 7 giga di dati, compresi alcuni documenti d'identità digitalizzati. Un elemento, assieme alla violazione dell'account di Gratteri, che a dire di Genchi spingerebbe il fascicolo sull'hacker a volare sulla scrivania di Raffaele Cantone, procuratore capo di Perugia.
Una bella grana per la Procura umbra che indaga sul presunto dossieraggio orchestrato dall'ufficiale Gdf Pasquale Striano e dall'ex pm antimafia Antonio Laudati, a cui secondo il legale di Miano spetterebbe la competenza su un reato «certamente compiuto a Roma», dove viveva l'hacker, come impone una nutrita casistica di sentenze sul cybercrime snocciolata al Riesame.
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