"Di Maio? Il Bersani del 2018". Così Renzi ha stroncato l'inciucio tra i suoi e M5s

La soluzione di garanzia della Lega: affidare a Salvini e al leader grillino la presidenza di Senato e Camera

"Di Maio? Il Bersani del 2018". Così Renzi ha stroncato l'inciucio tra i suoi e M5s

Antefatto. Mercoledì pomeriggio Michele Anzaldi, renziano eretico, senza peli sulla lingua («qualunque cosa succeda, io ho sempre un lavoro fuori di qui»), terrore dei vertici Rai nella scorsa legislatura, racconta gli avvenimenti che hanno destabilizzato il Pd dalle prime proiezioni della batosta alle politiche, in poi: 48 ore di montagne russe. «Noi - confida - avevamo deciso di stare all'opposizione dei grillini in ogni caso, ma poi si è messo a giocare il Quirinale. Aveva cominciato alla vigilia del voto, accettando quella commedia della lista dei ministri messa su da Di Maio. Poi, si è messo a ragionare davvero su un governo Di Maio. Sai com'è, quando si muove il Quirinale Gentiloni si mette sull'attenti gli va dietro Zanda. E comincia la catena. La verità è che Renzi è il numero uno, ma sulle nomine non ne azzecca una». Nelle stessa giornata, Anna Finocchiaro, ministro in carica, telefonava a una vecchia amica, già dirigente di primo piano dei Ds in Umbria, sbilanciandosi in questa previsione: «Se Maurizio Martina ha le palle, dimettiamo Renzi lunedì in direzione. Tanto nella direzione ce la facciamo, visto che è pieno di dirigenti che non ha inserito nelle liste».

Un piano ben congegnato. Partito un attimo dopo l'apertura delle urne, quando tutti hanno preso atto delle proporzioni della sconfitta del Pd. Schema semplice e efficace: prima si fa fuori Renzi dalla segreteria e, contemporaneamente, si apre una trattativa con i grillini. Quello stesso giorno, Matteo Renzi ne è sicuro, anche se non sa se al mattino o nel pomeriggio, Dario Franceschini, con la benedizione o grazie al Quirinale, ha un approccio con alcuni dirigenti grillini e gli illustra quale sarebbe il meccanismo per innescare l'intera operazione: la sua elezione a presidente della Camera come primo passo per la formazione di una maggioranza 5stelle-Pd. Quale motivazione spinge Mattarella a benedire questo tentativo? Certo, c'è anche la convinzione che non si può mettere fuori dai giochi un partito che ha stravinto in tutto il Sud del Paese come i grillini, ma c'è, soprattutto, un fatto culturale, la formazione morotea, l'idea che bisogna sempre confrontarsi e includere il diverso. Un po' come Aldo Moro fece con il Pci. Solo che, con tutto il rispetto, c'è un piccolo particolare che non torna: i 5stelle non sono il Pci e Mattarella non è Moro.

E, infatti, alla fine il piano abortisce. Sui numeri. Renzi, invece, di dimettersi subito, congela le sue dimissioni e si posiziona sulla linea del Piave del «no» a di Maio. E comincia la conta in quella terra di confine tra i due schieramenti che è diventato il Pd. Sul No ai grillini non c'è storia. «Non esiste in natura - spiega Ettore Rosato, l'inventore della legge elettorale maledetta oggi da mezzo Pd - che ci siano parlamentari del Pd che votino di Maio. Qui alla Camera non possono essere più di cinque. E se lo facessero dovrebbero scappare dal Pd, visto che la base su un'ipotesi del genere è in rivolta». Già, il primo tentativo di dare una soluzione alla crisi è finito su un binario morto. «Questa operazione - ha confidato Renzi ad un amico - partita dal mondo di quella sinistra che piace a Repubblica e, magari, anche al Quirinale, è fallita sui numeri. Anche se debbo essere prudente nel giorno dei vigliacchi, è con me l'80% del gruppo del Senato e il 50% del gruppo della Camera. I grillini per fare il governo al Senato avrebbero bisogno di almeno 45 senatori, cioè del 90% del gruppo del Pd: non ci arriveranno mai! Io ora mi dimetto, ma resterò nella stanza del segretario fino a metà aprile, quando si svolgerà l'assemblea nazionale per decidere il futuro del partito. Sempreché non ci sia un rinvio. Farò il semplice senatore, ma deciderò i due capigruppo. E, comunque, se nell'assemblea nazionale riproponessero l'idea di un'alleanza con i grillini, il Pd si spaccherebbe e la maggioranza dei gruppi parlamentari non seguirebbe il partito». Una frase che il segretario del Pd ha lasciato in sospeso, facendo tornare in mente la storia di quel'«associazione» che, sotto la sua egida, sta per partire e che gli permette di esprimere un «de profundis» sull'ipotesi del governo Pd-5stelle: «La verità è che Di Maio, sbagliando i numeri, è diventato il Bersani del 2018! Ancora non se ne è accorto nessuno. Come nessuno nel centrodestra mi ha riconosciuto il merito di aver bloccato l'ipotesi del governo 5stelle-Pd».

Archiviato, per ora ma probabilmente per sempre il governo Di Maio (è difficile che il presidente gli possa affidare il mandato quando i numeri in Parlamento non tornano neppure sul piano ipotetico), quale strada prenderà la crisi? Al Quirinale, dove il pragmatismo democristiano impera, ora guardano sul versante del centrodestra. Ma anche qui la soluzione non è semplice. Bisognerà fare i conti della campagna acquisti nella terra di nessuno, già affollata di potenziali transfughi. Ma senza un coinvolgimento del Pd o di una parte di esso, è difficile venirne a capo. Il problema è il nome di Salvini: visto che la coalizione del centrodestra ha vinto a metà, cioè non ha i numeri, per allargare la maggioranza, deve cambiare il nome del candidato a Palazzo Chigi. Berlusconi appoggerà il tentativo di Salvini fino in fondo, ma sicuramente non vuole che sia l'ultimo e, magari, apra la strada alle elezioni. E sul versante del Pd quel nome è indigesto. «Certo - congettura nei panni dello spettatore Renzi con i suoi - è più probabile che il governo lo faccia il centrodestra. Ma il Pd potrebbe ragionare sul nome di Tajani i temi europei ci darebbero dei margini. O magari, su quelli di Maroni, di Zaia. Ma questi due nomi forse sono opzioni ancora più difficili per Salvini». Appunto, è davvero difficile che il leader della Lega apra la strada ad un altro nome del centrodestra.

Semmai, potrebbe utilizzare la cosiddetta «maggioranza di interdizione» con i grillini, affinché non ci siano dei governi «con maggioranze politiche» diverse da quelle che si sono presentate gli elettori. Ossia, una maggioranza che coinvolga tutto il Parlamento nessuno escluso, e che, quindi, non abbia un colore politico. «Noi un governo con pezzi del Pd o cose del genere - è l'analisi di Stefano Candiani, che ha conquistato l'Umbria rossa alla Lega - non possiamo farli, ma è anche vero che tornare al voto subito sarebbe un terno al lotto per tutti. Metteremmo la firma per un governo Pd-5stelle, ma gli mancano i voti. Allora stiamo ragionando sull'ipotesi di dare una veste istituzionale allo schieramento che sosterrà il prossimo governo. E il primo passo potrebbe essere quello di eleggere Salvini presidente del Senato e Di Maio presidente della Camera. Sarebbero i garanti di quel governo appoggiato da tutti, su un programma concordato da presentare in Parlamento, che sarà guidato da una personalità esterna scelta da Mattarella».

Si tratta solo di una «boutade», di un piano ardito, o di una minaccia nello schema della «maggioranza di interdizione»? Di sicuro come ipotesi da ultima spiaggia, di soluzione che dovrebbe arrivare alla fine delle contorsioni della crisi, ha una sua logica: Salvini e di Maio, in quei ruoli, sarebbero i garanti di questa maggioranza di tutti, o aperta a tutti; il ruolo istituzionale renderebbe in futuro difficile porre dei «veti» sui loro nomi per Palazzo Chigi; infine, controllando il Parlamento, sarebbero loro a decidere la data delle prossime elezioni e il tipo di legge con cui si voterà. «Certo possono farlo - è l'osservazione ipotetica che Renzi ha fatto con i suoi -, ma a quel punto anche loro dovranno fare i conti in Europa con il tetto del 3% e, se non riusciranno a sfondarlo, dovranno renderne conto ai loro elettori.

Come pure dovranno tentare di rimettere in discussione il trattato di Dublino sull'immigrazione e, in caso di fallimento, risponderne ai cittadini che li hanno votati. Insomma, saranno finalmente chiamati a fare i conti con la realtà».

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