Trentadue centesimi l'una, c'è scritto sulla ricevuta. «E a giorni -assicura l'importatore Francesco D'Onofrio- sarò in grado di farle arrivare in Italia a 30 centesimi». Il prezzo delle mascherine in arrivo dall'Asia sta calando. Merito della ripresa del trasporto aereo che ha ridimensionato i costi della logistica esplosi nei giorni dell'emergenza ma anche segnale che il timore del virus è meno incalzante e che è terminato il panico che aveva scatenato una gara planetaria all'acparramento.
Una buona notizia ma non per i produttori italiani: a breve il prezzo calmierato di 50 centesimi imposto da Domenico Arcuri, che era troppo basso nei momenti dell'emergenza, rischia di risultare perfino troppo generoso (anche se al costo d'importazione vanno aggiunti i costi di distribuzione). Lo stesso Arcuri nell'ultima conferenza stampa vantava di aver fatto crescere una produzione italiana «con un costo medio di 41 centesimi a mascherina», dunque decisamente superiore al prezzo dei prodotti che arrivano dalla Cina.
A fare le spese della gestione dirigista potrebbero essere gli imprenditori che hanno risposto generosamente all'appello del commissario straordinario nel momento dell'emergenza. Alcune grandi aziende hanno stretto accordi con il commissario e produrranno grandi quantitativi di mascherine, con macchine automatizzate in grado di sfornare fino a un milione di pezzi al giorno. «I piccoli -spiega Gian Angelo Cattaneo, amministratore delegato della Plastik di Bergamo, azienda che produce una parte del ricercatissimo tessuto-non-tessuto usato per le mascherine- andranno fuori mercato. Il prezzo calmierato non ha avuto alcun impatto reale: ha creato problemi quando i dispositivi erano molto richiesti, sarà inutile ora che il prezzo scende. Ma immagino che sia stata una scelta politica per mostrare che si faceva qualcosa».
Il prezzo calmierato, oltre a svuotare per settimane gli scaffali delle farmacie, ha colpito duramente le aziende che, su invito dello Stato, avevano deciso di riconvertire la produzione nel periodo del lockdown e mettere a frutto le proprie capacità. In totale 102 aziende sono riuscite ad accedere al fondo di 50 milioni messo a disposizione da Invitalia, la società pubblica di cui Arcuri è rimasto amministratore delegato, pur assumendo contemporaneamente il ruolo commissariale. La procedura burocratica era così complessa che 14 milioni su 50 non sono stati assegnati, stando ai dati resi pubblici finora. Altre aziende hanno deciso di rischiare in proprio, molte in Lombardia, la regione più colpita. Ed è proprio nel Nord Italia che è esplosa la rabbia delle imprese quando, dopo aver investito decine di migliaia di euro per comprare macchinari e materia prime per produrre mascherine, il commissario dal giorno alla notte ha imposto il prezzo calmierato. A dare loro voce una lettera aperta del deputato di Italia Viva Mauro Del Barba, dopo la quale Arcuri ha chiamato alcuni imprenditori per promettere sostegno. «Mi fa piacere che mi abbia chiamato e promesso l'aiuto di Invitalia -, dice l'altoatesina Stefania Gander- ma resto contraria al prezzo calmierato».
Altre ditte hanno deciso di ridimensionare la produzione, mentre Arcuri pare aver puntato tutto su 26 aziende che, promette, forniranno due miliardi di mascherine. Non è dato saperne i nomi e quanti soldi pubblici riceveranno. Se la strategia funzionerà lo scopriremo alla prossima epidemia.
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