Un'ora e un quarto di conferenza stampa e un minuto e mezzo di epilogo che, politicamente, racconta più di quanto non sia emerso nelle dichiarazioni pubbliche di questi ultimi giorni in cui Palazzo Chigi ha lungamente interloquito con il Quirinale e con la Lega per limare, modificare e correggere il decreto immigrazione approvato ieri dal Consiglio dei ministri in «trasferta» a Cutro. Davanti a telecamere e giornalisti, Giorgia Meloni si presenta con a fianco i due vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini, oltre ai ministri Matteo Piantedosi, Carlo Nordio, Francesco Lollobrigida e al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. La premier fa il punto sulle nuove misure adottate dal governo, difende le sue ragioni in una conferenza stampa in cui i cronisti locali le imputano apertamente di «non essere informata bene» sui passaggi che hanno portato al naufragio al largo delle coste calabresi. Poi la chiusa. Con Salvini che chiede la parola e la butta lì. «Di tutti gli ultimi anni dice il vicepremier ce n'è uno che, secondo i dati non solo del Viminale ma anche della Commissione Ue e dell'Onu, ha avuto un numero minimo di morti e dispersi nel Mediterraneo centrale. È il 2019. E lascio a voi ogni riflessione sulla coincidenza, considerando che l'attuale ministro dell'Interno allora era capo di gabinetto del Viminale». Non dice Salvini che nel 2019 era lui a guidare l'Interno, con i decreti sicurezza e i porti chiusi. Non ce n'è bisogno, perché il messaggio è implicito. Era quella, secondo il leader della Lega, la ricetta giusta. Nonostante Meloni freni le spinte del Carroccio che proprio ieri in commissione Affari costituzionale della Camera con il vicecapogruppo Igor Iezzi ha fatto incardinare una proposta di legge che reintroduce alcune misure dei decreti Salvini. Anche meno sottinteso, poi, è il sostegno all'operato di Piantedosi, con buona pace della premier che vorrebbe avocare a Palazzo Chigi il dossier migranti dopo lo scivolone del ministro all'indomani della tragedia di Cutro.
È sufficiente quell'ultimo minuto e mezzo di conferenza stampa per capire quale e quanta sia la distanza tra Meloni e Salvini. Profonda al punto che ieri il vicepremier ha minacciato apertamente di non partecipare al Consiglio dei ministri se non fosse stato tolto dalla bozza del decreto presentato di prima mattina in pre-Consiglio il tanto discusso articolo 10. Che prevedeva un potenziamento della sorveglianza marittima, con l'istituzione, nell'ambito del Comando in capo della squadra navale della Marina militare, di un Dispositivo integrato interministeriale. Il problema, però, è che le modalità attuative di questo Dispositivo sarebbero state definite con un decreto di Chigi su proposta della Difesa e solo di concerto con i ministri interessati. Una norma con un significato politico evidente: sarebbe stato Guido Crosetto a gestire il dossier, mentre Piantedosi e Salvini avrebbero avuto un ruolo secondario. Scenario che, ovviamente, non ha trovato il via libera del vicepremier. Che, anzi, ha giocato di sponda con il suo ex capo di gabinetto Piantedosi e si è oposto con forza. Inutili i tentativi di Crosetto e Mantovano di tenere il punto, perché alla fine Meloni è stata costretta a mediare e venire incontro alle richieste del leader leghista. «Una soluzione diplomatica», è l'eufemismo che usa un alto dirigente di Palazzo Chigi. Con Meloni che in conferenza stampa spiega che la decisione di «stralciare» l'articolo 10 è stata presa proprio su richiesta del ministro della Difesa.
In verità, una vittoria di Salvini. Che va all'incasso in chiusura di conferenza stampa. E che costringe Meloni a dover porre l'accento sull'approccio rigorista. «Siamo determinati a sconfiggere la tratta di esseri umani», è il concetto su cui si focalizza durante l'incontro con i giornalisti. Per rivendicare la linea dura, nonostante il decreto sia tarato sul binomio «contrasto e accoglienza» (con l'inasprimento delle pene per gli scafisti sì, ma anche norme che agevolano permessi e nulla osta lavorativi per i regolari).
Il timore, forse, è quello di perdere appeal sull'elettorato di riferimento del centrodestra, con l'alleato leghista che invece continua a spingere sull'acceleratore. D'altra parte, tenere insieme populismo e draghismo è un gioco di equilibri alquanto difficile.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.