Meloni guarda al Terzo polo e prova a dividere le opposizioni con il premierato

Tutte le volte che sono state fatte contro qualcuno si sono risolte in un gigantesco pasticcio. Quasi fosse una maledizione quella delle riforme istituzionali

Meloni guarda al Terzo polo e prova a dividere le opposizioni con il premierato
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Tutte le volte che sono state fatte contro qualcuno si sono risolte in un gigantesco pasticcio. Quasi fosse una maledizione quella delle riforme istituzionali, con i governi che le hanno approvate che si sono poi trovati a pagare pegno alle elezioni successive. In maniera bipartisan: nel 2001 e nel 2016 è toccato al centrosinistra, nel 2006 al centrodestra. Eppure la tentazione di mettere mano all'architettura costituzionale a colpi di maggioranza resta immutata, nonostante la storia consigli cautela. Tanto che ieri il ministro per le Autonomie, Roberto Calderoli, si è spinto a dire che «l'opposizione deve prendere atto che ha perso le elezioni» e quindi «non ha diritto di veto» sulle riforme. Non certo un buon viatico in vista del tavolo di confronto che si aprirà oggi alla Camera tra le delegazione dei partiti di maggioranza e opposizione.

Non è un caso che il vicepremier Antonio Tajani scelga di derubricare in maniera più soft il concetto, spiegando che le sue parole di domenica sono state male interpretate. Lo fa poco prima che inizi il comizio di Ancona, dove i leader del centrodestra sono riuniti a piazza Roma per sostenere la corsa a sindaco di Daniele Silvetti. Mentre Giorgia Meloni e Matteo Salvini sono nel retropalco, infatti, il ministro degli Esteri si ferma qualche minuto a fare il punto. «Nessuna sfida, non ho mai cambiato idea. E ho sempre detto e ripetuto che le riforme vanno fatte trovando un accordo con tutti», spiega. Poi, certo, «se l'opposizione dovesse decidere per l'Aventino, noi non potremo che andare avanti». Ma a chi gli obietta che al momento il centrosinistra sembra indisponibile al confronto, Tajani butta lì un «siete sicuri?». E aggiunge: «Se l'opposizione si dovesse dividere sarebbe un altro discorso». Un ragionamento che guarda evidentemente al Terzo Polo, visto che sia Matteo Renzi che Carlo Calenda - almeno su questo punto, stranamente, non sembrano essere in disaccordo - hanno lasciato aperto più di uno spiraglio, purché si ragioni sul premierato (modello su cui ieri Meloni non ha chiuso). E Tajani sfuma anche sull'eventuale competizione interna alla maggioranza tra il presidenzialismo caro a Meloni e l'autonomia su cui spinge invece Salvini. «Partono insieme e hanno percorsi paralleli, anche se è chiaro che sono riforme diverse e che i tempi della seconda saranno più brevi», dice Tajani.

Anche l'altro vicepremier, Salvini, usa toni accoglienti. E auspica che si possa mettere mano alla Costituzione «tutti insieme». Con la consapevolezza che difficilmente Pd e M5s saranno della partita. Ecco perché Tajani - ma anche Meloni - guardano al Terzo polo. Che non ha numeri sufficienti in Parlamento per evitare l'eventuale referendum confermativo (lo stesso che nel dicembre 2016 costrinse proprio Renzi alle dimissioni da Palazzo Cighi), ma che - spaccando il fronte dell'opposizione - allontanerebbe l'accusa di una riforma costituzionale a colpi di maggioranza. E ieri è arrivata la mano tesa proprio dell'ex premier: «Non sono d'accordo sul presidenzialismo, ma faccio il tifo per Meloni».

Che sul punto ha voglia di spingere sull'acceleratore. Tanto che al tema la premier dedica una buona parte del suo intervento dal palco di Ancona. E spiega che «offre il massimo della disponibilità se c'è disponibilità» al confronto, ma non accetta «atteggiamenti aventiniani o dilatori» perché «per fare le riforme» ho «un mandato dai cittadini». Insomma, «faccio quello che devo fare». E forse non è un caso che citi espressamente sia il «presidenzialismo» che il «premierato», sistemi dove «non mi pare si possa dire che c'è un uomo solo al comando». Un passaggio che Renzi avrà certamente apprezzato.

Infine, un ultimo messaggio alle opposizioni: «dicono che non è una priorità», ma invece «io penso lo sia» perché è il momento di «dire basta a governi costruiti in laboratorio dentro il Palazzo», che «passano sulla pelle dei cittadini».

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