A proposito di scaramucce natalizie, si registra nella maggioranza l'ennesima diatriba su rimpasto «sì» e rimpasto «no». Prima alimentata dai guai giudiziari di Daniela Santanchè e dall'addio di Raffaele Fitto promosso a vicepresidente esecutivo della nuova Commissione europea, e ora rilanciata dall'assoluzione di Matteo Salvini nel processo Open Arms, che ha portato il leader della Lega a ipotizzare un suo ritorno al Viminale. Tutte beghe festive destinate a fare la fine dell'anno che se ne va.
Già, perché al di là delle parole di Salvini e dei suoi fedelissimi («sono sempre stato favorevole ai rimpasti, aiutano a migliorare la squadra», ha scritto due giorni fa sui social Claudio Borghi), Giorgia Meloni a rimettere mano alla compagine di governo non ci pensa proprio. Neanche lontanamente. Una convinzione che non è legata allo specifico della questione Salvini, ma che è complessiva. La premier, infatti, continua a coltivare la speranza di arrivare nella top three dei governi più longevi della storia d'Italia. Ambizione legittima, visto che già oggi - con 798 giorni in carica - si colloca al settimo posto e le bastano solo tre mesi ancora per superare il Moro III e il Prodi I e arrivare al quinto posto di sempre. Ma, soprattutto, fra dieci mesi - esattamente il 20 ottobre 2025 - toccherebbe quota 1.094 giorni a Palazzo Chigi con lo stesso governo, scavalcando Matteo Renzi e il Craxi I e piazzandosi al terzo posto dopo il Berlusconi II (1.412 giorni in carica) e il Berlusconi IV (1.287 giorni). E a quel punto - anche vista la totale assenza di un'opposizione che in Parlamento si preoccupi di farsi carico del ruolo che dovrebbe competergli - potrebbe legittimamente sperare di insidiare anche il secondo (deve arrivare al 2 maggio 2026) e il primo gradino del podio (il 4 settembre 2026).
Un'aspirazione, quella di Meloni, che - spiega chi ha occasione di sentire spesso la premier - non è dettata da una questione squisitamente numerica, ma dalla volontà di dare il segnale che un governo nato nelle urne garantisce una stabilità ben più solida di un esecutivo frutto di accordi e intese parlamentari post voto.
È per questo che l'ipotesi rimpasto non è e non sarà sul tavolo, a meno che Meloni non sia costretta dagli eventi. Ed è anche per questa ragione che ha provveduto rapidamente alla sostituzione di Fitto con Tommaso Foti prima che si arrivasse allo show down su Santanchè e alla sentenza su Salvini. Accorpare gli avvicendamenti, infatti, avrebbe significato avvicinare un rimpasto. Così come un cambio della guardia a un ministero di peso come il Viminale. D'altra parte, ci sono altri due ministri di fascia non alta ma altissima che oggi Meloni cambierebbe volentieri, ma ben se ne guarda proprio per evitare che si apra la riffa del bis. Che - non è un dettaglio - è sempre una partita che si sa come inizia ma non come finisce, alle prese con le richieste di alleati che vogliono andare all'incasso o di vecchie istanze cadute nel vuoto o di nuove pretese.
Non è un caso che i due capigruppo di Fdi a Camera e Senato derubrichino l'ipotesi rimpasto come un'ipotetica del mai. «Non ci sono due tempi, il governo ha un tempo solo ed è sulla strada per fare tutti e cinque gli anni di legislatura e questo sarebbe una novità», dice il presidente dei senatori Lucio Malan.
Sulla stessa linea il suo omologo a Montecitorio Galeazzo Bignami. «I rimpasti danno una sensazione di fragilità ai cittadini e - dice a La Stampa - sarebbe un errore incrinare l'immagine di stabilità del governo che è anche un elemento centrale a livello internazionale».
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