Il messaggio è esploso con tutta chiarezza nel cielo russo, senza che l'interessato dovesse nemmeno renderlo eplicito: Putin non perdona, il suo potere è inesorabile, chi lo mette in discussione conosce la fine che l'aspetta. In poche ore la morte di Evgenij Prigozhin ha cambiato, al di là dei dettagli sulla dinamica dell'evento, la narrazione sul Cremlino. «Non importa quale sia la causa della distruzione dell'aereo», ha scritto sull'ex Twitter, la politologa Tatiana Stanovaya. «Tutti lo vedranno come un atto di punizione e di vendetta. Dal punto di vista di Putin e degli uomini dei servizi di sicurezza, la morte del capo della Wagner servirà come lezione preventiva a chi volesse seguire le sue orme».
Andrei Soldatov, uno dei più attenti conoscitori dei cosiddetti siloviki, ha sottolineato in un'intervista «la freddezza» con cui Putin ha agito: ha preso tempo, sistemato in qualche settimana le questioni relative al business e al ruolo strategico della milizia Wagner, poi ha agito. «Ha dimostrato di avere un perfetto controllo della situazione».
Sistemati da tempo gli oppositori politici (tutti in galera o in esilio) il Cremlino ha fatto piazza pulita nelle ultime settimane delle voci dissonanti tra le forze nazionaliste. Ha fatto arrestare Igor Strelkov (Girkin), testa calda che a suo tempo gli diede una mano per far sollevare il Donbass, allontanato (e forse almeno per qualche tempo arrestato), il generale Surovikin. Poi, appunto, è toccato, a Prigozhin.
L'élite è avvertita: alternative non ce ne sono, il sistema di potere è in grado di gestire crepe e contraccolpi di una guerra che continua a essere difficile. La prima conseguenza è quella di accelerare la trasformazione del regime: come avverte Andrei Kolesnikov, senior fellow presso il Carnegie Endowment, il volto autoritario ha lasciato via via il posto a quello semi-totalitario. Per i russi è sempre più difficile rimanere in disparte: società ed economia si vanno militarizzando a passo di corsa, a molti è ormai richiesta una partecipazione attiva allo sforzo bellico. Gli ultimi libri di testo scolastici adottati dal Ministero della Cultura completano il cerchio, ricostruendo un percorso storico in cui Stalin e gli zar fanno parte di unico sforzo destinato a realizzare la missione di civiltà affidata alla Russia.
Come in tutti i sistemi totalitari il potere ha sempre più spesso un aspetto monolitico, le caratteristiche personalistiche si accentuano. Il Paese sembra avviato a diventare una specie di enorme Corea del Nord in cui un solo uomo tiene in mano non solo i fili dell'autorità statale, ma anche l'intero senso del destino nazionale. Così la figura di Prigozhin potrebbe essere presto destinata a un veloce oblìo: già ieri i siti dei principali organi di informazione russi tendevano a dare sempre meno spazio alla sua fine. Non senza qualche curiosa ipotesi complottistica, secondo la quale a causare l'incidente potrebbero essere state le armi portate a bordo dagli stessi passeggeri.
Poche le voci che sottolineano gli elementi di debolezza nella strategia del Cremlino. Una tra esse è quella del politologo Abbas Gallyamov, ex speechwriter di Putin, da tempo all'estero. In un post su Telegram scrive che ora «l'establishment è più che mai convinto che è impossibile opporsi a Putin, troppo forte,potente e vendicativo».
Ma, dal punto di vista dei semplici cittadini Prigozhin ha lanciato una sfida pubblica alle autorità: «Putin non ha accettato il confronto in campo aperto, si è avvicinato furtivo e ha colpito alla schiena. Non un nemico, un agente americano, ma un patriota russo che ha osato dire la verità». Alla lunga, dice, la figura di Prigozhin, eroe populista che combatteva l'élite potrebbe tornare a pesare.
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