Sul Colle, stilografiche pronte fino dal pomeriggio, in attesa del decreto. Che tarda, sparisce nei meandri dei palazzi, si trasforma. Finché alle sette il giallo si sgonfia e le «disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale», questo il titolo, superano il vaglio della sigla presidenziale. Una norma politicamente cruciale negli equilibri di governo, che nelle ultime 24 ore passa da un articolo a tre, si irrobustisce con la possibilità di ricorrere in Appello e però un po' si perde nei anfratti della burocrazia, tra limature e bollinature della Ragioneria. Ma non c'è ansia né suspence, Sergio Mattarella aveva già dato il via libera a un testo, peraltro ampiamente concordato. Decisione confermata in mattinata, quando il capo dello Stato presiede il Consiglio superiore di difesa sul Libano e l'Ucraina e, dopo il vertice, scambia «una serie di opinioni» con Giorgia Meloni. Un incontro «molto disteso», un piccolo giro d'orizzonte prima della partenza stamattina del capo dello Stato per Bologna e le zone alluvionate. E alle sette di sera la firma.
Una firma secca, senza lettere di accompagnamento. Dunque sulla bozza migranti dal Quirinale non si alza nessuna obiezione e non si rileva nessun profilo di incostituzionalità, neanche nella sua seconda versione. Nemmeno da Bruxelles si segnalano oppositori. «Monitoriamo da vicino l'intesa Italia-Albania», dice solo Ursula Von der Leyen.
E si va avanti. Come si legge nell'articolo due, in caso di invalidazione del fermo il governo potrà ricorrere in Corte d' Appello e non solo in Cassazione contro le ordinanze dei tribunali, ristabilendo così un secondo grado di giudizio. «È ammesso reclamo nel termine di cinque giorni. La proposizione non sospende l'efficacia esecutiva del provvedimento reclamato e la corte, sentite le parti, decide entro dieci giorni». La differenza è notevole: mentre la Suprema Corte esamina le questioni presentate soltanto sotto il profilo della legittimità, in appello si entra nel merito delle cause e ci sono più chances di ribaltare le prime sentenze.
Insomma, per il governo stilare una nuova lista di Paesi sicuri non era sufficiente per mettersi al riparo dai giudici, da qui l'idea di rafforzare un po' il decreto inserendo la possibilità di ricorrere. Era stato proprio il regista dell'operazione Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza, già al momento di presentare il testo originale a ventilare l'ipotesi di rimetterci subito le mani. «Non si escludono nuovi interventi».
Infatti. I dubbi, le esitazioni, la voglia di ottenere un risultato pratico e non solo politico, senza però forzare troppo la mano ed entrare in conflitto con la magistratura o irritare il Colle. Ore di intense trattative e di accurati consulti nel quadrilatero Palazzo Chigi-Quirinale-Viminale-Via Arenula alla fine hanno portato alla conclusione che sì, si può fare, non c'è nulla che strida con la Costituzione.
La domanda è: funzionerà? La risposta è «certo, perché è stato messo in chiaro con una legge a chi spetta decidere quali Paesi sono sicuri e quali no». E ora, spiegano fonti della maggioranza, «con l'appellabilità le cose scorreranno meglio». In questo quadro va letto pure il ricorso in Cassazione contro il verdetto del tribunale di Roma che ha invalidato il trasferimento in Albania dei dodici migranti, risbarcati poi a Bari.
«Era necessario per puntellare la scelta del Consiglio dei ministri ed evitare una raffica di mancate convalide». Tra l'altro le operazioni sono condotte alla luce del sole, precisa Luca Ciriani, ministro dei rapporti con il Parlamento: «I migranti portati in Albania sono stati scelti con operatori Unhcr».
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