Milano lo santifica subito. E l'ultimo addio sarà in alta uniforme

Militari in divisa e celebrità alla camera ardente. Sala proclama il lutto cittadino

Milano lo santifica subito. E l'ultimo addio sarà in alta uniforme

«Ciao, fratello». Secondo Alessandro Bergonzoni è il saluto di Dario Fo al neo Nobel Bob Dylan. «Lo saluta così, perché Dario non è morto. A morire oggi è la cultura, per questo è giusto che non ci siano lacrime» specifica Bergonzoni.

Oh, sì che esiste la morte, per tutti, anche per Dario Fo, e se le lacrime non ci sono, vuol dire che Fo ha lasciato gli animi secchi di speranza. La morte è se stssa per tutti, lo dice il pallido senso di pudica commozione sul volto di Jaele Fo, nipote dell'attore, che nel grande paradosso della vita porta un dolore composto, che trema: il nonno non c'è più, in questa camera ardente al Piccolo Teatro, una camera secca, senza pianto, senza code e folla - i milanesi sfidando le cateratte del cielo arrivano ad uno ad uno come formichine -. Una camera ardente troppo corretta politicamente: i colori della bandiera, bianco, rosso, verde, dalle rose della corona fino ai pennacchi dei carabinieri.

«Come si dice quando i militari sono vestiti così?» chiede Joele al fidanzato Andrea e all'amica Elena dai capelli rossi. «In alta uniforme» rispondono i due ragazzi. Fa sorridere questa risposta, se si pensa quanto Fo negli anni di «Mistero Buffo» non sia mai stato un uomo da uniforme, quell'uniforme smessa quando appese al chiodo la camicia nera, come ha ricordato Ignazio La Russa, fondatore di Fratelli d'Italia, definendo Fo «ex camerata della Repubblica di Salò», per indossare di nero solo la calzamaglia del giullare dissacr-attore contro la Patria e anche contro di Dio.

Sulla bara la croce non c'è, e saranno laici oggi i funerali, dal teatro Strehler a piazza Duomo (ore 12), con la commemorazione del figlio Jacopo e del patron dello sloow food Carlin Petrini. Che beffa! Saranno laici sotto la Modannina, come un'ultima provocazione, grigia.

La camera al Piccolo mostra una foto dell'attore con il volto incorniciato da un pennello, e intanto politici come Dario Franceschini, ministro ai Beni culturali, pennella la sua firma su uno dei registri funebri. Il figlio Jacopo si è lamentato che Milano in passato non ha fatto abbastanza per il padre, e il sindaco Giuseppe Sala: alè, subito sull'attenti: «Rimedieremo». Milano si è fatta in un «una». Una sola politica: magnanima e signora l'opposizione di centro-destra ha votato «sì», perché la cultura di destra non è subdola, per tumulare subito, oggi, Dario nel Famedio, vicino a donna Franca Rame, in mezzo a geni come Manzoni, che il Nobel non l'ha preso, ma resta immortale. Lo sarà anche Fo? Ai posteri l'ardua sentenza. «Dario Fu» ha titolato ieri Il Giornale, riecheggiando quella meraviglia dell'«Ei fu» manzoniano del «5 maggio», perché Dario è vissuto da Fu. Attraverso l'arte ha cercato di mandare all'altro mondo leggi, etichette e ricchi, ma se ne va da Fo, in pompa magna, da epulone, facendo fare a tutti la parte da lui decisa sulla scena della sua assenza. Una fine di Stato con lutto metropolitano, senza buffi misteri, ma con tronfi ministeri. Come non è stato per Giorgio Albertazzi. O per Bernardo Caprotti, che ha tradotto in una lunga impresa la lettera simbolo milanese, la «S» di Semplicità. Dario Fo ha creato una forma di commedia dell'arte. Commedia: «C».

Eccola la «C» gramsciana di cultura che con Fo muore. Togliendosi la maschera, se ne va da attore a Cinque Stelle, Dario. Una suite di lusso. Non una suonata alla Dylan, ma una camera ardente lussuosa da albergo del passato.

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