La morte dal sesto piano del super manager Lukoil che osò criticare la guerra

Giallo sul vice presidente Ravil Maganov. La società: "Era malato". La scia di decessi sospetti

La morte dal sesto piano del super manager Lukoil che osò criticare la guerra

Nella Russia di Putin certi privilegi di epoca sovietica sono rimasti immutati. Esistono tuttora, per dirne una, ospedali e sanatori riservati alla «nomenklatura», termine che fin dai tempi del regime comunista indica il vertice del potere politico ed economico. Nell'Ospedale Clinico Centrale di Mosca era ricoverato Mikhail Gorbaciov prima della morte sopravvenuta martedì scorso. E fino a ieri, al sesto piano, vi era in cura anche Ravil Maganov, presidente del Consiglio di amministrazione di Lukoil, colosso del petrolio e secondo produttore di greggio in Russia. La posizione di potere non ha salvato Maganov, che aveva 67 anni, da una fine drammatica: alle 7.30 del mattino è precipitato da una finestra, schiantandosi in un cortile e morendo sul colpo.

Secondo fonti di polizia, Maganov si sarebbe suicidato. È noto (lo riporta l'affidabile quotidiano economico russo Kommersant) che il top manager aveva avuto un infarto e che soffriva di depressione. Ma è anche vero, a far dubitare di una morte cercata volontariamente, che Maganov è il secondo tra i massimi dirigenti di Lukoil nel giro di pochi mesi a perdere la vita in circostanze poco chiare. L'8 maggio scorso, in seguito alla scoperta in un appartamento del corpo del top manager Aleksandr Subbotin, la polizia russa aveva aperto un'indagine per sospetto omicidio, concludendo poi essersi trattato di morte naturale per crisi cardiaca.

A far dubitare di un suicidio, soprattutto, ci sono due elementi. Il primo è che Lukoil che a differenza di Gazprom e di Rosneft non appartiene allo Stato - è stata una delle pochissime grandi imprese russe a correre il rischio di esporsi chiedendo apertamente la fine dell'invasione dell'Ucraina ordinata da Vladimir Putin lo scorso 24 febbraio. Già all'inizio di marzo, in una lettera agli azionisti, la compagnia petrolifera dichiarava ufficialmente di schierarsi in favore di «una immediata cessazione del conflitto armato e della doverosa ricerca di una sua soluzione attraverso un processo negoziale e mezzi diplomatici», oltre a esprimere «la più profonda solidarietà a tutti coloro che sono toccati da questa tragedia»: molto difficile che Putin abbia tollerato una così esplicita sconfessione. Va anche ricordato che il fondatore di Lukoil, Vagit Alekperov, che aveva conservato il suo posto in seguito a un'intesa di fatto imposta dal Cremlino, si era invece dimesso nell'aprile scorso dopo essersi visto bloccare i beni in Inghilterra.

Il secondo punto è la notoria esistenza di una guerra di tipo mafioso tra fazioni oligarchiche che, all'ombra di uno «zar» garante di ogni e qualsiasi concessione statale, si contendono il controllo degli immensi guadagni derivanti dalla gestione del settore energetico nazionale. Una guerra spietata, nella quale si sono già contate tra i top manager di colossi energetici una decina di morti più che sospette, ma regolarmente definite suicidi dagli investigatori russi: spiccano i «suicidi» (aprile scorso in Spagna) dell'ex manager di Novatek Sergei Protosenja, di sua moglie e della loro figlia diciottenne; il giorno prima erano stati trovati morti in un appartamento di Mosca l'ex vicepresidente di Gazprombank Vladislav Avayev, sua moglie e il loro figlio di 13 anni.

Una guerra, peraltro, avviata a fini di arricchimento già una quindicina di anni fa da Putin in persona e dal suo giro di fedelissimi («siloviki») provenienti dal mondo del Kgb.

La sua prima celebre vittima non in senso omicida, a differenza di altri casi era stato l'oligarca Mikhail Khodorkovskij, che si era visto espropriare il colosso degli idrocarburi Yukos, finito nelle mani di amici di Putin come Igor Secin mentre il vecchio proprietario veniva spedito in Siberia a scontare dieci anni di carcere duro.

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