Hassan Nasrallah vivo, ma privo dei suoi più fidati luogotenenti caduti sotto i colpi israeliani. E i missili a lunga gittata del Partito di Dio trasformati in armi inutili dal timore di subire rappresaglie ancor più devastanti. Il tutto mentre i comandanti sopravvissuti, ma frastornati, si chiedono quale sia la falla che permette all'intelligence nemica di seguire i loro spostamenti e colpirli con sconvolgente precisione assieme a migliaia di altri obiettivi. «Dobbiamo ribaltare i rapporti di forze al confine con il Libano» prometteva una settimana fa Benjamin Netanyahu. Fin qui sembra essersi riuscito. Nessuno, da Teheran ai comandi di Hezbollah, s'aspettava una partita così improba. E forse neppure Israele viste le esitazioni di questi ultimi 11 mesi.
Ma qual è la chiave di volta che ha permesso di trasformare in bluff la minaccia di Hezbollah? Innanzitutto la minuziosa osservazione delle mosse avversarie. Dopo i 40 giorni di guerra del 2006, e ancor di più dopo il 7 ottobre, Israele ha schedato e archiviato ogni mossa nemica impiegando tecnologie diventate esponenzialmente più efficaci di quelle nemiche. Così l'aviazione è andata a colpo sicuro su migliaia di obiettivi già pre-selezionati. Altrettanto decisive sono state le deflagrazioni di cerca-persone e radiotrasmittente costate la vita, la cecità o la mutilazione a migliaia di quadri del Partito di Dio. Quel colpo a sorpresa e la mancanza di mezzi di comunicazioni sicuri ha spinto una dirigenza sciita frastornata e ferita a usare sistemi di trasmissione ugualmente compromessi. E questo mentre spie e collaboratori del Mossad infiltravano ancor più a fondo il movimento. Compromissioni e infiltrazioni che potrebbero aver interessato anche quel fronte iraniano dove ogni decisione di Hezbollah viene vagliata e approvata. Difficile altrimenti spiegare l'individuazione e l'eliminazione in pochi giorni dei principali esponenti del Consiglio della Jihad massimo organo decisionale del movimento.
Da Ibrahim Aqil, colpito venerdì assieme ad Ahmed Wahabi e un'altra dozzina di alti ufficiali, fino ad Ali Karaki, il numero tre dell'organizzazione sfuggito alla morte lunedì. Fino a Ibrahim Qubaisi, il responsabile missilistico di Hezbollah polverizzato ieri da un raid aereo sulla periferia Sud di Beirut. In tutto ciò c'è da chiedersi fin dove voglia arrivare Israele. Lasciare l'opera a metà senza entrare nel Sud del Libano e spingere Hezbollah oltre il corso del fiume Litani, 30 chilometri più a Nord, significherebbe sprecare un'occasione. E offrire a un animale ferito l'opportunità di riorganizzarsi e preparare la vendetta. Difficile, quindi, che Israele si fermi. Anche perché spingere le milizie sciite lontano dai propri confini significa togliere al vero nemico, il padrino iraniano, quella possibilità di colpire direttamente Israele che è anche fonte di consensi e potere politico all'interno di tutto il mondo mediorientale.
Il mancato utilizzo dei missili a lunga gittata
per colpire le principali città dello Stato Ebraico rappresenta, invece, un altro segnale dell'estrema debolezza di Hezbollah. E della malcelata speranza che Israele scelga di fermarsi senza infliggergli il colpo fatale.
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