Al Nazareno comincia la guerra civile Fronda all'attacco: Matteo deve andare a casa

Il segretario vuole impedire accordi con il M5s, pronti a cedere la presidenza della Camera a Franceschini. Per questo i big puntano a cacciarlo subito

Al Nazareno comincia la guerra civile Fronda all'attacco: Matteo deve andare a casa

Roma La svolta improvvisa arriva dopo una giornata di infiniti summit, riunioni, conciliaboli, telefonate incrociate. Con un unico obiettivo: stabilire un percorso di exit strategy pilotata dalla leadership del segretario sconfitto, e aprire una nuova fase nel Pd.

Solo che il diretto interessato non ci sta, fa trapelare per tutto il giorno segnali di ira e di sfida e alla fine annuncia, a sera, che si dimette ma resta, a presidiare un percorso che collochi il Pd all'opposizione. Perché, spiegano i suoi, nel Pd rischia di partire un «tana liberi tutti» che - è il sospetto renziano - potrebbe spingere i Dem, in nome della «responsabilità» chiesta dal Colle, ad appoggiare tentativi di governo grillino o di centrodestra. «Ci offriranno la presidenza della Camera, poltrone di commissione, la garanzia di una legislatura lunga. E possono trovare orecchie attente», dicono. E c'è chi fa anche esempi: «Dario Franceschini rifiuterebbe la poltrona più alta di Montecitorio?».

Renzi lancia la sua sfida fragorosa e la reazione è immediata e pesante. Tanto da far temere l'implosione. Il primo a parlare è il capogruppo uscente al Senato Zanda, franceschiniano: «La decisione di Renzi è incomprensibile, serve solo a prendere tempo. Le dimissioni di un leader sono una cosa seria, o si danno o non si danno, e quando si decide si danno senza manovre». Al Pd servirebbe «massima collegialità», non «inspiegabili» rinvii con l'obiettivo di «continuare a gestire il partito e i passaggi istituzionali». Quando si dimisero Veltroni e Bersani, ricorda Zanda, «un attimo dopo non erano più segretari». La novità è che, secondo le interpretazioni fornite, alla dura contraerea del capogruppo avrebbe dato un avallo anche Palazzo Chigi. È l'inizio di uno scontro senza esclusione di colpi, che fa tremare le mura di un Pd già tramortito dalla batosta elettorale. Il ministro Andrea Orlando parla di un Renzi con la «sindrome del bunker», che non si assume «la piena responsabilità di fronte alla sconfitta più grave della storia della sinistra italiana del dopoguerra», nonostante abbia «potuto definire, in modo pressoché solitario, la linea politica, gli organigrammi e le liste». Gianni Cuperlo chiede «l'immediata convocazione della direzione», il minnitiano Nicola Latorre accusa il «senatore Renzi» di «non voler agevolare un processo che possa rilanciare il progetto politico del Pd». Un'altra ministra, Anna Finocchiaro, incalza: «Annunciare le dimissioni, e non darle, dopo avere subito una sconfitta di queste dimensioni è vistosamente in contrasto con il senso di responsabilità di lealtà e di chiarezza dovuti al partito ai suoi militanti ai suoi elettori».

Tocca a Lorenzo Guerini rispondere alle raffiche che arrivano da ogni corrente Dem contro il segretario asserragliato al Nazareno: nessuna «dilazione», le dimissioni di

Renzi «sono verissime». Il punto è un altro, tutto politico: «il Pd è all'opposizione, in coerenza con quanto detto in campagna elettorale da tutto il partito». E che ora molti, sospetta Renzi, si vorrebbero rimangiare.

LCes

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