Montebelluna (Treviso) - Di quell'uomo non si vedono più nemmeno i muscoli. Sta seduto nella sala rianimazione dell'ospedale di Montebelluna (Ulss 2 di Treviso) dove lo vediamo mentre viene sorretto dai medici. «Questi sono gli effetti del Covid», ci dice il primario Moreno Agostini che ha gli occhi azzurri come il cielo che infondono speranza. Un altro paziente sta nel lettino dall'altra parte della stanza. Walter si chiama. Ha addosso il respiratore ma ci vuole parlare. Lui ha perso venti chili. I pazienti qui ora sono tutti negativizzati. «È stata dura ci dice dura, avevo tosse, si pensava la solita faringite». E poi, poi il nulla. Lui ha 59 anni.
Il primario Moreno Agostini ci accompagna lungo quel percorso che facevano i malati di Covid. Un percorso delimitato; ancora ci sono a terra i segni dei nastri che indicavano le direzioni. Ancora ci sono appesi i cartelli. «Isolamento», «Vietato l'ingresso», «Percorso infetti». Fa impressione. Fa impressione se pensi che qui fino al 30 aprile scorso i medici gli infermieri gli operatori correvano, combattendo contro il tempo, sputando l'anima per salvare vite umane.
Rifacciamo assieme al primario e alle due dottoresse che ci accompagnano Monica Venturato, coordinatrice recupero e riabilitazione funzionale, ed Elena Bolzonello, coordinatrice infermieristica unità riabilitativa sub intensiva, il percorso. Dalle sale operatorie, smantellate e adibite a Covid, al momento della vestizione per i medici, che ancora hanno avvolto i cellulari nel domopak, al momento della svestizione, nessuno usciva da dove era entrato, nessun contatto con il pulito, ci si cambiava, ci si disinfettava e si entrava in doccia. «Non avendo più posti in terapia intensiva abbiamo trasformato le prime quattro sale del gruppo operatorio ci spiega il primario mettendo un muro in mezzo al corridoio trasformandoli in altri posti di terapia intensiva. Il personale di sala operatoria è stato adibito a gestire pazienti Covid da rianimazione». Fino al momento in cui hanno dovuto prendersi cura dei pazienti che anche se negativizzati erano rimasti segnati. «Ci siamo resi conto spiega sempre Agostini - delle grosse problematiche riabilitative di questi pazienti e li abbiamo spostati in questo reparto, nel day surgery». (Clicca qui per guardare il video reportage)
I reparti divisi per gradi: terapia intensiva, rianimazione e riabilitazione. E così nel giro di due giorni hanno allestito una sala riabilitativa, palestra, attrezzi, lettini, cyclette, due cicloergometri, tutto per consentire al paziente di riprendersi. Una porta blindata poi che separa il percorso dall'infetto al pulito, è stata messa su in due ore. Ora sono rimaste le cerniere. Proseguiamo lungo il corridoio: hanno allestito una sala parto e da qui c'è una finestra che dà sul mondo. Andiamo giù. A trovare i pazienti in isolamento. Ce ne sono alcuni, ora negativi al virus. Parliamo al di là della porta, Fernanda sta seduta sul letto, Nicola Quer anche. Sono qui da metà marzo. Davanti a loro due dottoresse, indossano la tuta verde, le visiere, le cuffie. Fernanda è del 42. Si è salvata. Nicola ha creduto di morire. «Prima la tosse, poi la febbre poi non ricordo nulla, mi sono risvegliato dopo 15 giorni in rianimazione». Per loro i medici, gli infermieri e tutto lo staff di questo ospedale sono diventati la loro famiglia. «Non sentiamo nemmeno la mancanza della nostra», dice Nicola. «Svegliarsi ed essere incapaci di muovere una mano, è stata una sofferenza grande racconta Fernanda il personale tutti disponibili, pronti; se non era per loro non ce la facevamo».
Salutandoci, il primario ci dice «se torna quello che era prima, noi, non so se ce la facciamo». Negli occhi però ci sono tutta la speranza e la vita di chi ama il proprio lavoro. E fa l'impossibile per salvare le vite degli altri.
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