«La dottrina della scoperta non fa parte dell'insegnamento della Chiesa cattolica. La ricerca storica dimostra chiaramente che i documenti papali in questione, scritti in un periodo storico specifico e legati a questioni politiche, non sono mai stati considerati espressioni della fede cattolica». È questo uno dei passaggi più interessanti di una nota congiunta - pubblicata ieri - dei Dicasteri per la Cultura e l'Educazione e per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale del Vaticano. All'apparenza questa presa di posizione potrebbe apparire stupefacente, ma si lega ad una lunghissima tradizione della Chiesa, che solo in maniera strumentale e con i paraocchi dell'anticlericalismo bieco, potrebbe essere considerata come una istituzione ammantata di una volontà coloniale. Il documento mette in luce, con molto equilibrio, le responsabilità dei singoli che però ovviamente vanno tenute discoste dalla Dottrina cristiana, che è un'altra cosa. Si sottolinea che «molti cristiani hanno commesso atti malvagi contro gli indigeni». E si spiega cono chiarezza che le Bolle papali del Quattrocento che concedevano ai sovrani colonizzatori i beni dei popoli originari erano documenti politici, strumentalizzati per atti immorali. Già Paolo III, nel 1537, dichiarò solennemente che gli indigeni non dovevano essere schiavizzati né derubati. Se la posizione della Chiesa, o di buona parte di essa è questa da secoli come mai la questione è tornata d'attualità?
Tra le richieste avanzate a Francesco, durante il viaggio dell'agosto 2022 e nelle udienze che il Papa aveva concesso, nei mesi precedenti, a diverse delegazioni di nativi canadesi, figurava l'abolizione, appunto, della «dottrina della scoperta», in base alla quale, nei secoli passati, quella «scoperta» era considerata terra nullius, terra di nessuno, e gli indigeni che vi risiedevano erano pertanto assoggettati alla dominazione delle potenze coloniali dei re cattolici, a partire dalle monarchie spagnola e portoghese. Un insieme di dottrine, dichiarate «razziste, scientificamente false, giuridicamente senza valore» da parte delle Nazioni Unite nel 2021, e superata nei fatti dalla Sede apostolica da moltissimo tempo. La dottrina, però, agli occhi delle nuove generazioni dei nativi, incide ancor sulle loro attuali rivendicazioni territoriali a causa di una giurisprudenza che da essa discenderebbe. Ecco allora la presa di posizione che, per altro, ha un solido appoggio nel passato della storia della Chiesa. La Bolla di Paolo III che menzionavamo prima, la Sublimis Deus del 1537, ribadiva già secoli fa che: «i detti indiani e tutti gli altri popoli che in seguito saranno scoperti dai cristiani, non devono in alcun modo essere privati della loro libertà o del possesso dei loro beni, anche se non sono di fede cristiana; e che possono e devono, liberamente e legittimamente, godere della loro libertà e del possesso dei loro beni... se dovesse accadere il contrario, sarà nullo e non avrà alcun effetto». Andò davvero come aveva auspicato Paolo Terzo? Ovviamente no ma in molti casi come nella battaglia di Mbororé, avvenuta attorno all'11 marzo del 1641, i rappresentati della Cristianità organizzarono la resistenza dei nativi. E in quel caso l'esercito delle Missioni la spuntò, a differenza che nella celebre rielaborazione filmica di Mission. Finì con i Guaranì vincitori che celebravano un Te Deum. Sarebbe poi sin troppo facile citare l'impegno di un vescovo come Bartolomé de Las Casas (1484-1566) nella difesa dei nativi. Quindi nel suo ribadire la chiesa non deve nemmeno discostarsi troppo dal suo passato. Forse il problema è che c'è chi quel passato cerca di leggerlo in un modo solo.
Le bolle più incriminabili rispetto alla «dottrina della scoperta» (chiaramente inaccettabile oggi) - Dum Diversas (1452), Romanus Pontifex (1455) e Inter Caetera (1493) - furono scritte per contenere lo scontro tra potenze europee quando però del nuovo mondo si sapeva ben poco.
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