"Nemmeno Buscetta ne aveva mai parlato. C'era un decalogo, ma Riina lo ha tradito"

Il magistrato per anni in prima linea: "I Corleonesi scelsero di attaccare frontalmente lo Stato. Il codice disatteso anche sul commercio di droga"

"Nemmeno Buscetta ne aveva mai parlato. C'era un decalogo, ma Riina lo ha tradito"

Lo statuto? «Mah, per me è una novità assoluta» risponde Giuseppe Ayala, oggi in pensione ma per lunghi anni in prima linea contro Cosa nostra e pubblico ministero al maxi processo di Palermo.

«I pentiti nel tempo ci hanno svelato tante cose sull'organizzazione mafiosa, ma sinceramente nessuno ci hai mai detto che da qualche parte ci sarebbe una sorta di Costituzione della mafia».

Nemmeno Buscetta ha mai indicato un codice scritto?

«No, nemmeno lui che pure per me è stato il più importante collaboratore. Pensi che è lui a svelarci il nome dell'organizzazione».

Cosa nostra?

«Certo, per noi c'era la mafia e non sapevamo che fra di loro i criminali utilizzassero quell'espressione: Cosa nostra. Certo, c'è sempre stato un decalogo, chiamiamolo così, cui boss e picciotti si sono sempre attenuti».

Quel codice che Riina avrebbe tradito?

«Esatto. La mafia, di cui si comincia a parlare con l'inchiesta di Franchetti e Sonnino nel 1876, ha sempre rispettato una regola su tutte: non attaccare frontalmente lo Stato, mimetizzarsi e così condurre col massimo profitto i propri affari illeciti, cominciando dalle estorsioni».

Poi i corleonesi rompono questo equilibrio.

«Ma è una stagione eccezionale e credo che Riina sia il principale artefice di quella cupa stagione di sangue. Bernardo Provenzano ha secondo me una sensibilità diversa e subisce la linea imposta dal boss sanguinario, ma poi, dopo l'arresto del capo dei capi nel 93, sposta progressivamente Cosa nostra su posizioni meno muscolari, diciamo così, e cerca di far spegnere i riflettori sulle attività delle mafia. Una politica che mi pare sia proseguita negli ultimi trent'anni: silenzio, azioni poco eclatanti, zero omicidi eccellenti, e se possibile, estorsioni e tanti crimini odiosi che però non fanno notizia».

Insomma, il codice scritto c'è o no?

«Chi lo sa, ma non sopravvaluterei la notizia. Non è che da qualche parte ci sia il testo firmato dai padrini fondatori, non esageriamo. C'è semmai quel modo di essere che i mafiosi hanno sempre cercato di rispettare. Buscetta, per esempio, era un personaggio carismatico ma non fa carriera perché é un donnaiolo e questo è inconcepibile per la mentalità mafiosa».

Nel fantomatico statuto dovrebbe però esserci anche il divieto di coltivare il traffico di droga. Qui la «Costituzione» è stata abbandonata.

«Per i mafiosi era vietato dedicarsi allo sfruttamento della prostituzione e infatti non ho mai aperto un fascicolo su questo versante, e poi naturalmente era proibito il business della droga. Ma mi pare che poi la voglia di fare soldi abbia prevalso e tutti i buoni propositi, tramandati per via orale o scritta non so, sono saltati senza tanti problemi».

Non c'era quindi bisogno di mettere in forma solenne le «tavole» dell'organizzazione?

«Non possiamo escludere che il padrino intercettato abbia parlato dopo aver letto qualcosa. Per carità, tutto può essere, ma la ragione sociale di Cosa nostra è sempre stata chiara ai suoi membri».

Anche Messina Denaro rispettava questa tradizione?

«Direi di si. Quel che cambia è la tipologia umana. Riina e Provenzano erano fondamentalmente dei contadini, sia pure diventati ricchissimi, Messina Denaro ha un altro profilo.

Ama la bella vita, spende 700 euro al ristorante, mette al polso orologi firmati e già che c'è si specchia nel ritratto del Padrino, trovato in uno dei suoi covi. Un'altra storia, ma dentro la stessa cornice: per questo credo che non si pentirà».

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