Noi liguri intrappolati tra cemento e inefficienza

La Regione, stretta e lunga, vorrebbe aprirsi al mondo. Rischia l'isolamento in balia degli elementi

Noi liguri intrappolati tra cemento e inefficienza

Mi chiama un amico. «Sono bloccato a Busalla, hanno chiuso la Voltri, sono tutti qui». La A26, per noi liguri è la Voltri anche se, sui cartelli, da qualche tempo, è apparso «Genova Prà». Misteri. Come recita uno storico assioma genovese «avrà avuto la sua conveniensa» a cambiare nome. L'altro giorno è crollato un viadotto sulla A6, cioè la Savona-Torino che ha sempre avuto una brutta fama e quando ero giovane aveva dei punti con la corsia di sorpasso alternata. La chiamavano «l'autostrada della morte» a causa del numero di incidenti.

Dopo il Morandi, abbiamo paura di tutto e la Liguria, regione stretta e lunga, dove lo spazio è ridotto e la strada è segnata, non aiuta. Vivo a Milano dall'inizio degli anni '80. Ho perso il conto dei miei su e giù, ma un aspetto è chiaro: ora il rischio code e/o rallentamenti è continuo, ed era già aumentato prima del crollo del ponte Morandi. C'è chi sostiene che i liguri sono gente chiusa, selvatica. Vengono spinti a diventarlo. L'isolamento è una condanna, non una scelta. Genova è l'unica città di quello che una volta si chiamava triangolo industriale, per cui i collegamenti ferroviari hanno gli stessi tempi di percorrenza di cinquant'anni fa.

La Liguria tra l'acqua e il monte, costringe a partire, è una regione di migranti, di nomadi. La Liguria era, e in parte è ancora, una crêuza de mä, come cantava Fabrizio De Andrè: i sentieri, le strade scendevano-salivano sulle creste dei monti e solo l'Aurelia seguiva la costa. Poi sono arrivati i viadotti e le gallerie, l'unico modo per attraversare le montagne senza passarci sopra. I viadotti sono fragili per natura, in balia degli elementi. Di tutti gli elementi. Durante la guerra, quando non esistevano le autostrade, l'unico ponte di una certa importanza era quello della linea ferroviaria che attraversava Recco. Gli alleati vennero ventotto volte a bombardarlo e distrussero il 95 per cento della cittadina.

La Liguria che vorrebbe aprirsi al mondo rischia l'isolamento. Autostrade chiuse, comunicazioni difficili. Noi vogliamo case per abitare e strade per viaggiare, ma lo spazio è quello. Sono nato a Rapallo, la città della «rapallizzazione». E qui arriviamo al punto della questione. C'è stata una fame di case, di seconde case spesso, durante gli anni '50 e 60. Le hanno costruite dove potevano, non solo a Rapallo che, delle cittadine rivierasche, era quella con più spazio. Le case le abbiamo volute, le autostrade le abbiamo aspettate. Quando ero un bambino quasi ogni maledetta domenica mio padre portava tutta la famiglia in un paese oltre il passo del Bracco, dove viveva sua madre. Un viaggio da incubo, intruppati sulla vecchia Aurelia, tra autocarri e file di auto, tra il gelo dell'inverno e l'afa dell'estate. L'apertura della A12 era un miraggio, accendevo dei ceri perché i lavori si sveltissero.

Noi liguri siamo un popolo in autostrada. C'è anche chi parte tutte le mattine per lavorare a Milano e torna a casa la sera. La Liguria ha bisogno di autostrade, di viadotti, di case, di collegamenti. Non sono le «gronde» il male, non è il cemento il diavolo. Lo sono l'inefficienza e la cattiva gestione, la disattenzione e la malversazione. Negli anni del boom economico, sulle alture di Genova venne costruito un palazzone di edilizia popolare che, per la sua forma lunga e sinuosa, venne soprannominato «biscione». Una delle tante alluvioni, nel 1970, se ne portò via un pezzo, per fortuna senza vittime. Girava una barzelletta.

C'era un'inchiesta e venivano interrogati i vari componenti, ferro, mattoni eccetera. A ognuno la fatidica domanda: è tua la responsabilità del crollo? Arrivati al cemento, questo rispose: «Mia? Ma se non c'ero neanche». I genovesi sanno ridere delle tragedie. Ma non lo permettono ad altri.

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