Noi ragazzi del '35, vi svelo il Pansa segreto

Il mio vecchio amico Giampaolo Pansa senza concessioni retoriche e/o sentimentali ha raccontato se stesso e l'Italia giornalistica della sua felice carriera

Noi ragazzi del '35, vi svelo il Pansa segreto

Il mio vecchio amico Giampaolo Pansa senza concessioni retoriche e/o sentimentali ha raccontato se stesso e l'Italia giornalistica della sua felice carriera con il linguaggio asciutto e efficace di quel grande cronista che è in un bel libro edito da Rizzoli (Il rompiscatole; l'Italia raccontata da un ragazzo del 35). Giampaolo ed io abbiamo la stessa età e saremmo entrati insieme alla Stampa se Giulio De Benedetti, il direttore di allora, non avesse respinto me segnalatogli dal Professor Valletta, allora presidente della Fiat, a seguito di un colloquio con mio padre, funzionario dell'azienda, che gliene aveva parlato con la paradossale, e cinica, giustificazione - me lo disse uno dei vicedirettori - che «ero troppo intelligente per fare il giornalista; non facciamoglielo fare». Successivamente, sarei entrato al Corriere, dove ho fatto persino il direttore e dove evidentemente si nutrono meno diffidenze per l'intelligenza altrui (ammesso che io, a quei tempi, ne fossi concretamente dotato). In realtà, la ragione vera della mia mancata assunzione non era stata quella, ma ben altra. E duplice. Io gli ero stato raccomandato dalla proprietà, mentre Giampaolo, da Galante Garrone, il docente col quale si era laureato all'Università di Torino e collaboratore egli stesso del giornale. Gidibì, come Pansa lo ricorda, aveva del proprio ruolo di direttore una concezione, se non vogliamo dire dittatoriale, diciamo almeno sacrale, formalmente anche nei confronti della proprietà. A decidere chi assumere e cosa fargli fare una volta assunto doveva essere lui, e solo lui, che, tra l'altro, mal sopportava che nel suo giornale entrasse un liberale quale io ero, col rischio, lo avrebbe detto, di inquinarlo. La prima cosa che mi aveva chiesto all'inizio del colloquio era stata, infatti, se, per caso non volessi cambiare la linea del giornale. Poiché, anche lo avessi voluto, non avrei potuto farlo, essendo l'ultima ruota del carro. La Stampa era un quotidiano truccato da giornale di sinistra per poter fare gli interessi della Fiat, che ne era proprietaria, come si suol dire, con la coscienza sociale a posto, un caso di trasformismo tipicamente italiano. Sarebbe diventata un giornale, diciamo così «normale», con Alberto Ronchey, il successore di De Benedetti, che, poi, lasciatane la direzione e dopo qualche anno da inviato e editorialista sempre a Torino, sarebbe arrivato al Corriere della sera dove io lavoravo già da qualche anno e ne sarei diventato, qualche anno dopo, direttore. Perché è un bel libro quello di Pansa? Per due ragioni. Perché, scritto da un uomo di sinistra, è ampiamente condivisibile anche da un liberale come me, e perché il linguaggio è lo stesso che Pansa usa come cronista quando racconta gli altri. Giampaolo è un grande cronista nel modo di raccontare e nel linguaggio, asciutto, essenziale, efficace. Ha vagabondato fra vari quotidiani, perché è uno spirito irrequieto e mal sopporta ubbidire. Come tutti quelli poco inclini all'ubbidienza, non sa, probabilmente come me, neppure comandare e non è mai diventato direttore di un giornale come avrebbe meritato. È rimasto il cronista di sempre con soddisfazione di chi ne legge gli articoli e ad onore del giornalismo nostrano. Il libro del quale sto parlando è, infatti, un bel libro, di gradevolissima lettura, anche perché pieno di annotazioni su un mestiere che molti vorrebbero fare e di cui parlano volentieri, ma non hanno la minima come lo si faccia. Pansa ed io, pur avendo la stessa età ed esserci avviati al giornalismo quasi contemporaneamente, abbiamo fatto percorsi diversi. Io, maggiormente incline alla riflessione, mi sono dedicato agli editoriali; lui si è dedicato a raccontare ciò e chi incontrava.

È passato anche al Corriere e confesso che, da direttore, non mi sarebbe spiaciuto avere un cronista della sua statura, pur sapendo, malgrado un'amicizia ventennale, quanto sia caratterialmente e professionalmente difficile da gestire. Caro Giampaolo, auguro a te e al tuo bel libro tutto il successo che meritate.piero.ostellino @ilgiornale.it

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