Non illudetevi Pechino è padrona

Non illudetevi Pechino è padrona

Non illudetevi. Il ritiro della legge sull'estradizione annunciato da Carrie Lam, la governatrice di Hong Kong fedele a Pechino, non è una vittoria della piazza. Il progetto, come precisa la stessa Lam, non è stato cancellato, ma solo rinviato a una data più opportuna. Quella attuale - in piena concomitanza con lo scontro politico, commerciale, ma anche strategico con l'America di Trump - era sicuramente la peggiore dal punto di vista dell'immagine. Anche perché coincide con il tentativo della Cina di allargare le proprie alleanze sfruttando i progetti rivolti a garantirle il controllo dei corridoi commerciali del pianeta. Tradendo palesemente i patti che nel 1987 sancirono il passaggio di Hong Kong dalla sfera britannica a quella cinese Pechino avrebbe alimentato i dubbi dei governi pronti, come l'Italia, a seguirla sulla Via della Seta. Ma il «suggerimento» di rinviare la legge sull'estradizione a Pechino serve anche a occultare un tradimento in parte già avvenuto. Il principio cardine degli accordi con l'Inghilterra per la cessione di Hong Kong era il concetto di «un paese, due sistemi». In base ad esso la Cina s'impegnava a preservare lo stato di diritto e le condizioni politiche ed economiche di Hong Kong fino al 2047. Nella realtà ha cessato di farlo fin dal 2014 quando cancellò la richiesta di suffragio universale, represse la «protesta degli ombrelli» e impose il sistema con cui decide e controlla tutte le principali nomine amministrative da quelle del governatore in giù. Nel 2014 non si fece il minimo problema a mettere alla porta la Commissione parlamentare inglese incaricata di vigilare sul rispetto degli accordi spiegando di considerare «ormai nulli» i trattati che - nell'interpretazione di Pechino - coprivano «solo il periodo dalla firma nel 1984 fino al passaggio di consegne nel 1997». Quanto al sistema capitalista non resta molto da conservare. In questi 22 anni è stata la Cina ad adattarsi al modello di Honk Kong diventandone però il regista dal momento che la principale finalità delle aziende straniere con sede nella città portuale è continuare a far affari con società controllate dallo stato cinese. In pratica restava da eliminare solo lo stato di diritto sottoponendo anche gli abitanti di Hong Kong all'arbitrio di un sistema giudiziario dove giudici e tribunali rispondono a Stato e Partito. Per ragioni di opportunità politica ed economica la Cina ha deciso di non farlo concedendo un'apparente vittoria alle piazze. In verità di quella legge non ha neppure bisogno. Nel 2016 non si fece problemi a rapire e costringere all'autocritica i librai di una casa editrice di Hong Kong specializzata nella pubblicazione di libri-inchiesta sulla corruzione del partito comunista cinese.

Insomma la repressione è già in grado di colpire oppositori e dissidenti anche nell'apparente porto franco di Hong Kong. Mancava solo la sua legalizzazione ufficiale. Ma anche quella prima o dopo arriverà. E, potete scommetterci, sarà ben prima del fatidico 2047.

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