Non spogliamoci del buon gusto

Non spogliamoci del buon gusto

Diciamolo subito: il sindaco non era vestito così male. In giro si vedono esemplari umani peggio vestiti e pure peggio svestiti. I bermuda, in una località marittima, ci stanno. Però c'è un però grosso come un armadio.

Qui a forza di toglierci le calze, sfilarci le cravatte, sbottonarci le camicie e accorciarci i pantaloni stiamo svaccando. Una passeggiata in una qualunque città italiana è una discesa negli inferi del buon gusto. Sederi che sbucano dai pantaloni, piedacci immondi infilati in dolorosissime infradito (dolorosissime più per l'occhio che le guarda che per il piede che le inforca), canottiere che lasciano libere ascelle più inquinanti di un diesel del 1987.

Se avessimo voluto vedere questa ostensione di carni avremmo fatto tutti i macellai. E poi tutto questo non sulla spiaggia di Acapulco ma, per esempio, in piazza del Duomo a Milano. Perché ogni posto ha il suo abbigliamento. E un uomo in ciabatte in mezzo all'asfalto metropolitano è fuori luogo come uno in smoking a un rave party. E il caldo non è una scusa, perché, altrimenti, dalla Sicilia in giù dovrebbero essere tutti nudisti. E così non è, nonostante le frotte di immigrati che pascolano in tenuta adamitica per le nostre città.

Certo, l'eleganza è faticosa e scomoda. Ma è una forma di rispetto verso se stessi e gli altri. E poi sarà pure vero che non è l'abito che fa il monaco, ma a tanti monaci di monacale resta solo quello. E allora teniamoci ben stretti i nostri costumi di scena. Il sindaco è finito sulla graticola per una bazzecola.

Il ristoratore invece che perseguitare il suo primo cittadino dovrebbe fare un salto a Roma e costringere i deputati a rimettersi la cravatta. La politica è troppo impegnata a evirare gli articoli determinativi maschili per occuparsi della deriva grillina del dress code parlamentare. Confidiamo in lui.

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