Da una parte l'ombra lunga di Donald Trump. Dall'altra quella di un Vladimir Putin ormai vicino a mangiarsi l'Ucraina. In mezzo un'Europa ancora una volta in ritardo per quanto consapevole di dover correre ai ripari prima di ritrovarsi a fronteggiare la Russia senza lo scudo della Nato. Ma per quanto la paura faccia novanta, le divisioni, le rivalità e gli egoismi dei 27 ostacolano l'adozione di una politica di difesa comune. Per capirlo basta una scorsa al documento sulla «strategia europea per l'industria della difesa» presentato ieri alla Commissione Ue. Il documento non prevede neppure lontanamente la creazione di un esercito europeo considerato, inutile dirlo, un'irrealizzabile utopia da gran parte dei 27. Il piano, messo a punto dal francese Thierry Breton - Commissario europeo per l'Industria - è piuttosto un decalogo economico e finanziario rivolto a garantire lo sviluppo di un'industria della difesa europea e spingere i 27 a preferirla a quelle degli Stati Uniti.
«Non siamo qui per finanziare l'industria della difesa, ma - ricorda Breton - per facilitare la produzione nel contesto di una minaccia esistenziale per la Ue». Ma già il fatto che a presentare il piano sia l'emissario di una Francia sospettata di ambire al posto di «dominus» della difesa europea basta ad alimentare dubbi, sospetti e divisioni. Per capirlo bastano le reazioni alla proposta più sensata ovvero l'idea di copiare lo schema seguito per l'emergenza Covid e finanziando la nascita del nuovo complesso militar-industriale con l'introduzione di bond europei. Una soluzione indispensabile, a detta di Breton, per moltiplicare l'esiguo miliardo e mezzo garantito dai bilanci europei e trasformarlo in un capitale da almeno cento miliardi di euro.
Ma la proposta fa i conti con i «no» di Germania, Olanda e Paesi del Nord difensori della più assoluta frugalità finanziaria e contrari a qualsiasi investimento a deficit. Senza quei cento miliardi sarà però assai difficile finanziare un'industria della difesa capace di garantire - nel nome del «compra europeo» - il 35% per cento delle forniture richieste dagli arsenali dell'Unione. Oggi visti gli ingenti acquisti di prodotti statunitensi (il 63 per cento delle armi dei 27 arriva da lì) e le carenze delle aziende europee quella quota non supera il 18 per cento. Una soluzione alternativa ai fondi potrebbe essere la moltiplicazione dei finanziamenti erogati dalla Banca europea degli investimenti. Peccato che la Bei sia prigioniera delle rigide politiche di Bruxelles. Queste - pur consentendo finanziamenti destinati a progetti incentrati sulla doppia valenza «civile e militare» - vietano investimenti destinati allo sviluppo esclusivo di armamenti. E vista la pavida ritrosia con cui la maggioranza dei 27 ha accolto la missione navale nel Mar Rosso c'è da chiedersi quanta strada possa fare la proposta di considerare l'Ucraina alla stregua di un Paese europeo spostandovi uffici e centri di produzione del nascente complesso militare industriale. Senza un cessate il fuoco in Ucraina, o in assenza di una copertura Nato, conseguenza di una rielezione di Trump, quei centri diventerebbero facili obbiettivi della Russia. Anche perché tra le proposte contenute nel piano c'è quella di finanziare il tutto usando i proventi degli assetti russi sotto sanzioni depositati presso le centrali titoli Ue.
Ma il punto più preoccupante di
tutto il piano è l'assenza dei tempi e dei termini in cui realizzarlo. Insomma l'emergenza è alle porte, ma l'Europa, una volta di più, rimanda l'azione e sceglie di consumarsi in sterili discussioni e pericolose divisioni.
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