P er mesi, magistrati illustri o sconosciuti di tutta Italia hanno incrociato le dita, sperando che Luca Palamara - collega potente e riverito fino al clamoroso tonfo per via giudiziaria - avesse avuto il buon senso di cancellare ogni tanto le sue chat. Perché sapevano che se si fosse risaliti non solo agli ultimi mesi, quelli della primavera 2019, ma anche più indietro, non si sarebbe salvato nessuno. Ma Palamara i messaggi non li cancellava. E adesso ce n'è davvero per tutti. Tutti coloro che in due anni hanno bussato alla porta del leader della corrente di Unicost per chiedere, proporre, trattare, sanno che il loro nome prima o poi salterà fuori dalla cornucopia dell'indagine della Procura perugina su Palamara e la sua cricca.
Così nel tritacarne finisce anche un magistrato che alla ribalta pubblica ci era arrivato nei giorni scorsi per la prima volta: Dino Petralia, il procuratore generale di Reggio Calabria, chiamato dal ministro Alfonso Bonafede per mettere un po' di ordine nel caos delle carceri italiane. L'arrivo di Petralia al Dap, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, era stato salutato come una garanzia di esperienza e serietà. Ma ora si scopre che negli scorsi anni anche Petralia aveva chiesto l'aiuto di Palamara per conquistare un posto cui ambiva assai: la Procura di Torino, lasciata libera dal suo capo Armando Spataro nel dicembre 2018.
Per il posto di Spataro fanno domanda in quattordici, tra cui lo stesso Palamara. Petralia, per anzianità e curriculum, sembra di gran lunga il più titolato. Ma prima ancora che la commissione incarichi direttivi del Csm decida le proposte per il plenum, Petralia intuisce che la sparizione tra correnti rischia di tagliarlo fuori. Prima si sfoga telefonando a una collega, il giudice reggino Tommasina Cotroneo, che si precipita a chiamare Palamara: il quale le dice di rassicurare Petralia, «cercheremo di fare tutto il possibile che tutto vada bene». Ma sono promesse fatte d'aria. Petralia inizia persino a ricevere messaggi di «condoglianze» di colleghi che danno per scontata la sua bocciatura, e a quel punto chatta direttamente con Palamara. I messaggi si infittiscono fino all'ultimo sfogo, il 20 maggio 2019, quando Petralia si lamenta che nonostante i suoi «titoli oggettivi che nessun altro possiede» verrà scavalcato «per logiche antiche che pure questo Csm sosteneva di avere abbandonato».
Nove giorni dopo, però, scoppia il finimondo, con l'inchiesta per corruzione a carico di Palamara che esce allo scoperto e investe l'intero Csm. Petralia ci pensa un po', e il 17 giugno comunica al Csm la sua decisione di revocare la domanda per la Procura di Torino. La mossa appare all'epoca come una giusta dissociazione dal mercato delle nomine scoperchiato dall'inchiesta di Perugia, ma ora, inevitabilmente, va letta anche in un'altra luce: Petralia sapeva che frugando nel telefono di Palamara gli inquirenti avrebbero trovato anche i suoi messaggi, visto che risalivano a pochi giorni prima. Come salteranno fuori le pressioni che lo stesso Petralia aveva fatto l'anno precedente per aiutare un suo amico, Vito Saladino, a diventare presidente di sezione del tribunale di Marsala. Petralia chiede l'intervento di Palamara, che in quel momento è ancora membro del Csm. E il 4 luglio 2018, nell'ultima seduta prima del suo rinnovo, il Csm nomina Saladino.
Scene di ordinario sottobosco, si dirà, cui neanche magistrati rispettabili sapevano sottrarsi. Vero.
Ma intanto le intercettazioni tra Palamara e Petralia creano una nuova, consistente rogna per il ministro Bonafede, che puntava sul magistrato siciliano come «uomo forte» sul fronte carcerario: e invece d'ora in poi, ad ogni scontro, Petralia si vedrà rinfacciare quelle chat. Il Dap, insomma, si ritrova un capo depotenziato, se non delegittimato: proprio nel momento meno adatto.
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