Israele ha davanti un'occasione a cui non può rinunciare. La Repubblica Islamica, invece, ha bisogno di un rappresaglia che non può più rinviare. Una prospettiva da incubo destinata a realizzarsi sotto gli occhi di un'America condannata all'impotenza da un Joe Biden a mezzo servizio privo, fino alla seconda metà di gennaio, di un valido sostituto. Da questa triplice certezza nasce la grande incognita di una guerra pronta a espandersi dal confine israeliano libanese fino all'Iran. E da lì a tutti i Paesi dove combattono le milizie legate a Teheran. Dalla Siria di Bashar Assad fino allo Yemen e all'Irak. Senza ovviamente dimenticare la Cisgiordania e una Gaza dove la presenza di Hamas non è stata completamente sradicata.
Ma partiamo dalla prima certezza ovvero quella di un Israele convinto di aver davanti un'occasione storica. I motivi di tanta certezza sono evidenti. Nel giro d'una settimana Hezbollah si è trasformata da potenza militare di prim'ordine in milizia allo sbando. Non ha più comandanti. Non ha più un leader come Hassan Nasrallah al comando da 32 anni. E deve fare i conti con la messa fuori gioco di migliaia di quadri intermedi mutilati, accecati o evirati dall'esplosione dei cerca persone. Dall'altra parte Israele ha davanti un'occasione inseguita da quando - terminata la guerra dell'estate 2006 - realizzò di aver lasciato in vita un nemico micidiale. Ora come sostiene Benjamin Netanyahu e come concordano - nonostante le divergenze - il ministro della Difesa Yoav Gallant e il Capo di stato maggiore generale Herzi Halevi sprecare l'occasione di cancellare la struttura militare del Partito di Dio eliminandone il peso politico - e di conseguenza la sua ambigua caratteristica di «stato nello stato libanese» - significherebbe dare un calcio alla provvidenza. O, meglio, a quell'intelligence e a quell'accurato studio del nemico che ha permesso di metterlo in ginocchio. Ma questo significa che l'operazione di terra cambia volto. Non sarà più una penetrazione limitata ai 30 chilometri di territorio dal confine al fiume Litani e non punterà soltanto a creare una zona cuscinetto per allontanare i miliziani sciiti dal confine. Si realizzerà invece attraverso operazioni su larga scala che colpiranno - di volta in volta - i territori meridionali, la Valle della Bekaa, Beirut e le zone al confine con la Siria dove Hezbollah ha le sue roccaforti e i suoi depositi di armi. Quindi non sarà né breve, né limitata. Punterà invece a sradicare il nemico «ripulendo» di volta in volta quadranti diversi di territorio.
Ma di fronte a tanta determinazione difficile illudersi che l'Iran possa stare a guardare. Perdere Hezbollah e la capacità di colpire dal suo territorio il «piccolo Satana» equivale a perdere il ruolo di grande nemico di Israele. E, di conseguenza, quello di potenza regionale. Quindi il primo obbiettivo di Teheran è puntellare Hezbollah trasferendo in Libano armi e missili, volontari pronti a combattere al fianco di Hezbollah e comandanti in grado di sostituire quelli caduti sul campo. Il tutto coordinando gli attacchi missilistici dei miliziani Houthi dallo Yemen, muovendo unità di sciiti iracheni attraverso la Siria e cercando di attaccare Israele anche nella zona delle alture del Golan. Piani destinati ad avverarsi a stretto giro di boa. Perché sia Bibi Netanyahu sia la Suprema Guida Iraniana Ali Khamenei sanno di doversi muoversi prima della fine di gennaio. Visti i costi della guerra Netanyahu non può disobbedire troppo a lungo alla Casa Bianca. Anche perché un presidente chiamato Kamala potrebbe tagliargli i 14 miliardi di aiuti militari autorizzati ogni anno.
Khamenei invece rischia di far i conti con un presidente pronto a dar man forte a Israele e a mettere fuori gioco per sempre i vertici della Repubblica Islamica. Un presidente che di nome fa Donald Trump. Ma in attesa di uno di quei due nomi non restano, per il momento, che la guerra e il caos.
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