La guardia bussa alla porta con violenza e dice: «Sentite quel pestaggio? Preparatevi, sarete le prossime». Gli interrogatori durano per 10-12 ore al giorno e le detenute sono minacciate di esecuzione.
Questa è la vita quotidiana dei prigionieri a Evin, la famigerata galera a nord di Teheran. Le sue condizioni inumane sono state raccontate più volte da ex carcerate. Qui si trova anche in cella di isolamento, la giornalista Cecilia Sala, costretta a dormire sul pavimento ghiacciato, con solo due coperte e a subire la tortura bianca, cioè a stare con le luci sempre accese per non farle distinguere il giorno dalla notte. Evin è uno dei simboli della repressione politica in Iran e si stima ospiti circa 15 mila detenuti. La struttura è stata soprannominata «Evin University» per l'alto numero di studenti, intellettuali e accademici incarcerati. E spesso è l'anticamera del patibolo. Il numero delle esecuzioni del regime degli Ayatollah fa rabbrividire. Secondo Amnesty International, più di 800 persone sono state giustiziate in Iran nel 2023, la cifra più alta in otto anni. Le celle a Evin, secondo molte testimonianze, sono spoglie, larghe non più di due metri, non c'è né letto, né bagno. Decine di migliaia di persone sono state arrestate e portate a Evin proprio per aver partecipato alle proteste «Donna, vita, libertà» seguite alla morte di Mahsa Amini, compresi circa 80 giornalisti.
I prigionieri subiscono tagli, lividi sul corpo e torture di ogni genere per rilasciare anche false confessioni. Sono costretti all'isolamento e a umiliazioni continue. Alcuni vivono in celle affollate con fino a 20 persone ciascuna, letti a castello senza materassi e mangiano cibo marcio. Vivere insieme in spazi angusti spesso causa attriti e a volte scoppiano risse. In inverno, le donne camminano con borse dell'acqua calda. In estate, soffocano per l'afa. Un'area buia e sporca alla fine di un corridoio serve come posto per fumare. Alessia Piperno (foto a destra), per esempio, che nel 2022 è stata incarcerata per 45 giorni nell'ala più dura, la sezione 209, aveva raccontato di «un inferno» in cui «si sentono sempre delle grida. Un edificio progettato per far viaggiare le urla dei prigionieri per tutta la struttura; spesso erano di disperazione, altre volte di dolore fisico che provavano a coprire con una sorta di radio. Ogni volta che lasciavamo la cella dovevamo essere bendate, anche in cortile per i cinque minuti d'aria. Dormivamo in terra sopra una moquette sporca, piena di capelli, sangue e scarafaggi».
Ogni sera, poi, i detenuti fanno la fila per usare il bagno e lavarsi i denti. Ottenere assistenza medica è stata una battaglia costante per le donne. Una di loro, il premio Nobel per la pace Narges Mohammadi (foto a sinistra), che ha problemi cardiaci e polmonari ha dovuto lottare a lungo per avere accesso a un medico.
Da Evin sono passati anche l'altra Nobel Shirin Ebadi e il regista Jafar Panahi, Orso d'Oro a Berlino 2015. Una delle cose più difficili per le donne però è l'attesa della sentenza e le compagne prigioniere diventano come sorelle. Nell'anniversario della morte di Mahsa Amini, le donne di Evin hanno bruciato i veli. Le guardie hanno fatto irruzione nelle celle, sono state picchiate e ferite, o rimesse in isolamento e senza più diritto a ricevere telefonate e visite.
Ai neonati invece è permesso stare con le madri in carcere fino a due anni. Dopodiché, vengono spesso mandati da un parente o in una casa per bambini. Una detenuta ha affermato con forza: «Il futuro è chiaro: combattere, anche in prigione».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.