Ora la destra Usa è pronta per l'assalto alla Casa Bianca

I repubblicani hanno fatto una campagna migliore sul web, ma manca ancora un candidato credibile

Mitch McConnell e la moglie Elaine Chao celebrano la vittoria a Louisville
Mitch McConnell e la moglie Elaine Chao celebrano la vittoria a Louisville

Oggi avremo i risultati delle elezioni di Midterm ma intanto alcune cose sono chiare. La prima è che i repubblicani contano di vincere con l'uso della tecnologia, pedinando ad personam i singoli elettori sui loro smart phone, sui loro iPad, computer e ogni aggeggio elettronico. Ironicamente, il partito di Obama rischia di prendere una stangata a causa degli stessi strumenti con cui aveva ottenuto una grande vittoria nella corsa alla presidenza. Obama però faceva un intenso uso del Web, cioè dell'elettronica partecipativa e popolare; mentre oggi i repubblicani hanno assunto in ogni città dei mostri del mondo delle applicazioni e sfrontati pirati informatici che, usando gli ultimi ritrovati del «cerca il mio cellulare» o le tracce elettroniche delle iscrizioni alle liste elettorali, hanno creato una rete impressionante che crea messaggi personali, del tipo «Che razza di repubblicano sei se non sei neanche sei andato a votare? Ti aspettiamo al seggio».

Le previsioni le conosciamo: come ogni elezione di mezzo termine - cioè a metà di un mandato presidenziale - anche questa castigherà il partito del Presidente che è già parecchio azzoppato per conto suo. La sorte di Obama è amarissima: ha fatto certamente ripartire l'economia visto che il tasso di crescita degli Stati Uniti dopo l'inferno della crisi del 2008, è oggi del 3,5 per cento (da noi faremmo feste e processioni di ringraziamento come nel Seicento dopo una pestilenza). La disoccupazione è scesa verticalmente e la riforma sanitaria, lentamente e silenziosamente, ha preso a funzionare.

Una funzionaria del Partito repubblicano mi dice con un sorriso sarcastico: «Ormai ci stiamo avviando al socialismo e l'America fra poco sarà come il Messico o il Canada: sanità pubblica, carrozzoni burocratici, scuole e università livellate e assenza totale dello spirito della frontiera, mentre sul fronte internazionale non contiamo più niente perché non vogliamo contare niente: questo è l'obamismo».

C'è molto di vero. Gli americani che non navighino nell'oro si stanno iscrivendosi in massa nelle liste della sanità pubblica rinunciando al divano di pelle della sala d'aspetto del costosissimo medico pagato da una costosissima assicurazione. La crisi ha insegnato al ceto medio che è meglio non fidarsi mai e non buttare soldi al vento sia nella sanità che nell'istruzione dove cresce l'offerta al ribasso nella spesa e al rialzo nella qualità, lasciando agli snob il vezzo di annunciare che «op mi sono laureato a Harvard». Oggi molte lauree di provincia garantiscono standard professionali altissimi in un Paese che investe sull'Università come fonte certa di posti di lavoro molto ben pagati.

Dunque, ad essere onesti, Obama non è andato male e fa quel che aveva detto di voler fare. Tuttavia lo attende quasi certamente una legnata da queste elezioni che potrebbero togliergli anche il controllo sul Senato. Che cos'è che gioca contro di lui e contro i democratici? Tutti i poll sono unanimi: l'incertezza, quell'aria da Charlie Brown che ha il presidente sempre indeciso se abbattere il regime siriano o sostenerlo. E poi Ebola, naturalmente. Qui, nella patria dei protocolli, quando qualcosa non funziona perfettamente si mettono sempre sotto processo gli autori dei protocolli e chi non è in grado di aggiornarli. Alla fine è il Presidente il responsabile.

Dall'altra parte i repubblicani sono, sì, sulla cresta dell'onda, ma non si sa di quale onda. Sono i neo rivoluzionari del Tea Party, gente radicale che vorrebbe il ritorno di un'età dell'oro senza tasse e senza il fiato del governo sul collo del cittadino? Oppure sono i panciuti conservatori simili ai nostri democristiani, navigatori nell'arcipelago dei compromessi? Non si sa.

È però un fatto notevole che da queste elezioni emergano tre possibili candidati per la corsa del 2016 alla Casa Bianca e che due di loro abbiano nel cognome la traccia latina, messicana o cubana. Sono: il senatore texano Ted Cruz, Rand Paul del Kentucky e Marco Rubio della Florida. Cruz e Rubio non sono wasp e il mondo wasp (white, anglo-saxon protestant) è sempre più alle corde.

A loro, l'abbiamo ricordato nei giorni scorsi, va aggiunto Jeb Bush, fratello dell'ex presidente George Walker e figlio ovviamente del vecchio George che lanciò la famiglia in politica dopo essere stato direttore della Cia e uomo di Ronald Reagan. I Bush, come a suo tempo i Kennedy, sono una dinastia: si sostengono e dispongono di una quantità di denaro notevole. Jeb è un ragazzone un po' pingue e non ha l'aria di uno che vorrebbe invadere l'Irak, ma di voler cambiare il sistema fiscale.

Prevale, in questo scenario, la tradizione isolazionista americana che del resto Obama incarna benissimo: si scornino fra loro nel resto del mondo, ma noi americani restiamo a casa nostra e non vogliamo essere coinvolti. Fu anche il motto di George W. Bush, che voleva un'America lontana dalla contaminazione del mondo, ma poi l'Undici Settembre lo costrinse a cambiare idea e da allora i guai in politica estera non sono mai terminati.

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