Ancora l'eco dei 700 missili di Hamas sul sud di Israele echeggia; i morti sono stati pianti e seppelliti; i feriti sono ancora ricoverati; Natal, l'organizzazione che risponde al telefono alle richieste di aiuto psicologico, ha ricevuto mille telefonate durante i giorni della miniguerra; e adesso Israele incrocia le dita. È in arrivo oggi a Gaza l'inviato del Qatar con la prima tranche dei 480 milioni di dollari per Hamas, Israele lascia entrare lui e i grandi camion di merci di ogni genere attraverso Kerem Shalom chiuso dal 4 maggio. Passano merci nella misura di 15mila tonnellate al giorno.
Il passaggio affogato di sole, di polvere, di misure di sicurezza che tante volte hanno salvato gli addetti da attacchi terroristici adesso è di nuovo aperto per i latticini, la carne, la frutta per la popolazione di Gaza. È una misura di calma, se non di pace. Più facile il modesto accordo odierno con Israele: Netanyahu ha gestito tutta la vicenda evitando il confronto verticale nonostante la gente del sud sofferente chiedesse (compresa la sinistra) un'operazione di guerra per porre fine agli incendi, agli assassini, agli assalti delle amasse al confine e alle distruzioni. Il numero dei morti israeliani è di 4, quello dei palestinesi 23, in larga misura militanti. Ma i due milioni di abitanti di Gaza, che anche l'Egitto tiene al bando per motivi di sicurezza, soffrono giorno dopo giorno la dittatura islamista di Hamas, che detta la quotidianità sempre in guerra.
Giovedì comincia a Tel Aviv l'Eurovision, le delegazioni canterine di tutto il mondo provano nel mondo ideale delle moquette e dei lustrini: è un'occasione diplomatica che nessuno vuole disturbata da un missile. Ma tutti sanno che, anche se l'Eurovision passerà tranquilla, la quiete è provvisoria. Né calma le acque il ripetuto annuncio che ormai mancano pochi giorni, quelli che si contano fino alla fine del Ramadan in corso, e fino alla festa ebraica di Shavuot il 10 giugno perché venga presentato il famoso «Accordo del secolo» di Donald Trump. Il principale fautore ne è il consigliere per il Medio Oriente e genero del presidente Jared Kushner, che è pronto a dire on the record solo che il piano richiederà sacrifici da tutte e le due le parti. È evidente che Netanyahu, grato del passaggio dell'ambasciata a Gerusalemme, accoglierà il piano con atteggiamento positivo, anche se non è affatto da escludere che gli chieda rinunce territoriali che non gli piaceranno affatto e che potrebbero fare cadere l'eventuale governo, per ora in costruzione. Invece i palestinesi non fanno passare giorno senza che Abu Mazen faccia sapere che non se ne parla nemmeno, che non ci sarà «una pace economica o umanitaria», come la motteggia lui. Ma quello che si sa dalle poche rivelazioni sempre tuttavia smentite, è che invece di parlare di «due stati» si parla di «aree»; uno Stato includerebbe una militarizzazione palestinese ingestibile per la sicurezza delle parti; che tuttavia verrà disegnato un confine senza prevedere espulsioni né di popolazione ebraica né palestinese, ma cancellando avamposti e piccoli insediamenti. Il piano si occupa anche di Gerusalemme, e conserverebbe lo status quo pur nel riconoscimento dell'autonomia palestinese. Kushner, sembra, prevede forti contributi economici per uno sviluppo notevole e tuttavia ben controllato, in modo che il denaro non finisca in violenza, della parte palestinese.
Netanyahu potrebbe trovarsi in difficoltà di fronte alle proposte dell'amico, ma potrebbe incentivarlo il consenso che Trump richiede dai Paesi sunniti dell'area, forse trasformato in una promessa di pace generale, il sogno di ogni israeliano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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