Imbaldanzito dall'apparente successo del missile lanciato oltre il Giappone, l'apprendista stregone di Pyongyang torna a minacciare gli Stati Uniti. Il razzo sparato dalla Corea del Nord - fa sapere l'agenzia ufficiale del regime Kcna - «è stato un «primo passo per le operazioni militari nel Pacifico e un significativo preludio» all'obiettivo della base militare statunitense di Guam.
Parole che ridicolizzano gli stanchi slogan pro dialogo rimbalzati dalle sempre più inutili Nazioni Unite e che sembrano studiate a tavolino per far infuriare Donald Trump, che poche settimane fa aveva promesso «fuoco e fiamme» alla Corea del Nord se si fosse azzardata a minacciare la strategica isoletta dove sventola la bandiera a stelle e strisce.
Trump e i suoi generali sarebbero molto contenti di dare una lezione all'insolente Kim Jong-un, ma a differenza del paffuto dittatore devono in ultima analisi attenersi - al netto della retorica che anche al presidente americano non dispiace - al buon senso. Così ieri il Commander in Chief, dopo aver ribadito la sua concreta solidarietà ai preoccupati alleati di Tokyo e di Seul che chiedono «pressione estrema» su Kim, non è potuto andare oltre la conferma di una minaccia molte volte sentita («tutte le opzioni sono sul tavolo») e ha fatto sapere una volta di più che la sua pazienza è esaurita: «Il dialogo non è la risposta. Gli Stati Uniti parlano con la Corea del Nord da 25 anni e ci hanno solo estorto del denaro», ha scritto nel consueto tweet il frustrato presidente.
Il vero problema, però, è che una soluzione indolore per la crisi nordcoreana semplicemente non esiste. Washington dispone in teoria di un arsenale molto più che sufficiente per annichilire lo sfrontato Kim e il suo regime staliniano 2.0, ma se Trump decidesse di usarlo aprirebbe un infernale vaso di Pandora. E questo sia nell'eventualità di una reazione alla minacciata aggressione a Guam, sia in quella di un attacco preventivo americano ai siti atomici nordcoreani.
Nel primo caso, infatti, è certo che Kim ordinerebbe anche in extremis un attacco feroce alla Corea del Sud (dove potrebbe uccidere milioni di civili nella sola Seul in poche ore) e al Giappone: e Trump non può trasformarsi nel responsabile della strage dei suoi alleati. Nella seconda ipotesi, invece, la Cina che continua a ribadire in coro con la Russia il suo «no ad azioni unilaterali» (quelle americane) ha già chiarito che metterebbe in campo le sue potenti forze armate per difendere la Corea del Nord.
I generali americani hanno dunque le mani legate? Difficile dire, certamente nel momento in cui la minaccia nucleare nordcoreana fosse giudicata troppo grave molte remore politiche verrebbero meno. Ma quel momento non pare imminente. Tanto che ieri il generale Mattis, capo del Pentagono, ha detto che c'è ancora spazio per una soluzione diplomatica.
In questo spazio ritiene di potersi inserire anche il pittoresco senatore Antonio Razzi, noto per le sue simpatie verso la Corea del Nord.
Razzi intende proporsi come mediatore e ambirebbe farlo «se autorizzato, a nome dell'Italia e degli Stati Uniti», in un suo prossimo viaggio a Pyongyang. «Per il bene del pianeta - ha assicurato in tutta serietà - questo e altro».
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