Partita aperta con normalizzazione in vista. A Hong Kong, dopo l'occupazione e la devastazione dell'edificio del Parlamento, i giovani manifestanti anticinesi si sono ritirati per così dire nel cuore della società urbana, che li sostiene e li protegge. Ma dopo il ritorno del Consiglio Legislativo sotto il controllo della polizia, Pechino ha fatto sentire la sua voce. E non soltanto attraverso la contestatissima leader del governo locale che di fatto alla Cina risponde, ma per bocca del suo stesso esecutivo, con parole studiate e pesanti.
Così, se la sempre più imbarazzata signora Carrie Lam si è rivolta all'interno e ha prudentemente plaudito al ritorno del rispetto della legge invitando la popolazione a recuperare «comportamenti normali», il portavoce del ministero degli Esteri cinese Geng Shuang ha parlato invece soprattutto alle potenze straniere: non ci devono essere equivoci, ha detto, quel che succede a Hong Kong è affare interno cinese, e nessuno se ne deve immischiare. Quel «nessuno» era riferito in primo luogo alla Gran Bretagna, chiamata in causa con un gesto massimamente provocatorio dagli stessi studenti quando hanno dispiegato nel Parlamento occupato di Hong Kong la vecchia bandiera coloniale britannica con tanto di Union Jack. Quei giovani angosciati dall'idea di finire sotto il tallone del comunista Xi Jinping o di qualche suo successore non avevano tralasciato nessun possibile messaggio mediatico: dalla vernice nera spruzzata sull'ormai detestato simbolo della Hong Kong cinese alla scritta «Hong Kong is not China», fino agli slogan ingiuriosi vergati sui grandi ritratti della signora Lam e dei suoi predecessori, accomunati dal servilismo ipocrita verso il potere totalitario di Pechino. E a questi messaggi aveva risposto il ministro degli Esteri di Londra Jeremy Hunt (uno dei candidati alla successione di Theresa May) invitando la Cina a «non cogliere il pretesto delle violenze occorse per scatenare una repressione a Hong Kong» e semmai a fare lo sforzo di considerare «le fondate ragioni della protesta».
Con le cautele del caso Xi non ha certo in mente di scatenare un'altra Tienanmen nell'occidentalizzata ex colonia di Londra, le cui relative libertà è formalmente impegnato a rispettare fino al 2047 il governo cinese segnala alla Gran Bretagna e al resto del mondo (Trump incluso, che ha speso parole di simpatia per gli studenti e le loro ragioni) di farsi gli affari propri. A Hong Kong, ha detto Shuang, sono avvenute «violenze intollerabili ed è stata calpestata la legge»: spetterà a Pechino e a nessun altro di farla rispettare in futuro. Una tolleranza zero che potrebbe cominciare con i processi a carico dei giovani responsabili di resistenza alle forze dell'ordine e di devastazioni.
Facile immaginare che se Pechino sceglierà questa via, i viali di Hong Kong torneranno a riempirsi di folle tanto più rabbiose quanto più oppresse dalla sensazione di non poter scampare all'incubo della comunistizzazione forzata.
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