Fino a pochi giorni fa i suoi mattoni rossi e la sua navata in calcestruzzo erano solo uno dei tanti sgorbi architettonici che dagli anni '60 intristiscono città e campagne. Da ieri la chiesa di San Giuseppe a Seriate è uno dei simboli della tragedia nazionale. Il passaggio dal brutto all'orrore è appena oltre la soglia.
Lì 45 bare e il loro carico di resti umani occupano i due lati delle panche prospicienti l'altare e una parte di quelle laterali. Un fantasma celato in una tuta bianca ci passa accanto, preme l'interruttore di una pompa, le irrora di disinfettante. Padre Mario Carminati, parroco di Seriate, osserva assorto mentre le dita delle sue mani congiunte si contraggono e si irrigidiscono. «Meglio in una chiesa che in un magazzino» ha sospirato quando la Curia di Bergamo gli ha proposto di aprir le porte alle vittime del coronavirus. Vittime che nessuno sa più dove e quando seppellire. Vittime per cui c'è il tutto esaurito anche nei forni crematori della Lombardia. Vittime costrette a far la fila per l' ultimo viaggio.
Ma per Don Mario quelle 45 casse restano prima di tutto persone. «Quando ci han chiesto di accoglierli abbiamo accettato di buon grado. Abbiamo pensato che era come farli entrare nella chiesa del Signore. Sono i primi che arrivano e abbiamo fatto di tutto per offrirgli un addio dignitoso e rispettoso». Mentre Don Mario spiega un altro prete veste la tonaca bianca, sale sull'altare, alza le mani dietro il cero che illumina le casse più vicine. «Nelle tue mani Padre clementissimo consegniamo le anime dei nostri fratelli e delle nostre sorelle». Poi Don Mario e il prete in tonaca bianca scendono dall'altare, costeggiano le bare, le bagnano con l'acqua santa, le benedicono una a una. È l'ultimo saluto, l'ultimo segno sacrale.
Subito dopo è la volta delle impietose formalità. I camion dell'esercito attendono dalle 9. Un muletto giallo circondato da militari in tuta protettiva sosta davanti all'entrata laterale. I lampeggianti dei carabinieri illuminano la strada, colorano di riflessi bluastri i condomini e le villette sparse intorno alla chiesa. Dietro le tende delle finestre mani congiunte, sguardi muti, facce corrucciate accompagnano la brutale esequie di massa. Ciascuno di quegli sguardi sostituisce i parenti assenti. Ciascuno di quei volti rabbuiati è ben conscio che in quelle bare, su quei camion potrebbe trovar posto, fra qualche giorno, un suo caro. O lui stesso. Non è un modo di dire. Padre Mario lo ha appena spiegato.
Dietro quelle 45 bare ci sono i sessanta e passa morti contati in 26 giorni tra i 25mila abitanti di Seriate. Ciascuno di quegli spettatori silenziosi è consapevole, insomma, d'assistere a uno spettacolo diventato inestricabile partitura d'un destino comune. Non a caso ogni finestra, ogni terrazza ha un tricolore. E due tricolori ancor più grandi addobbano l'entrata principale della Chiesa di San Giuseppe trasformata in sacrario d'una patria in lutto. Sul lato opposto dell'edificio i soldati posano la bare sul muletto, le sollevano fino all'altezza del cassone, le spingono dietro il telone. Un camion per ogni sei bare, otto camion per quasi due ore di lavoro.
Poi la colonna funebre scortata dai carabinieri si mette in moto. Ha davanti un viaggio di 220 chilometri fino al forno crematorio di Ferrara e a quello di Copparo.
Ma intanto il piazzale svuotato dai camion dell'esercito si sta già riempiendo. Uno dopo l'altro tre, quattro, cinque carri mortuari si allineano in paziente attesa. Prima di domani la chiesa di San Giuseppe sarà nuovamente piena.
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