Non è passato molto tempo da quando il Movimento 5 stelle si faceva carico di tutte le battaglie di movimenti e comitati civici. Dalle metropolitane alle superstrade, dagli inceneritori agli ospedali, i «No» del Movimento alle infrastrutture coincidevano con il programma politico pentastellato. Poi è arrivata la fase due, di lotta e di governo, dominata dalla strategia del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli: combattere le opere pubbliche con studi costi benefici e nomine impossibili.
Ora i margini di manovra si sono ridotti. Il M5s è stato costretto a fare retromarce dolorose (pagate a suon di contestazioni subite dallo stesso ex ministro Toninelli), ma non mancano soddisfazioni. Obiettivi considerati impossibili fino a poco tempo fa, come una possibile revoca della concessione ad autostrade, sembrano a portata di mano.
Poi ci sono le leggi. Il decreto semplificazioni, ridotto ai minimi termini rispetto alle prime bozze, è stato approvato dal consiglio dei ministri con la formula «salvo intese» e ancora sconosciuto nelle parti essenziali.
Compresa la lista delle 130 opere strategiche stilata dal ministro alle Infrastrutture Paola De Micheli battezzata «Italia veloce». Nota stonata in un governo sostenuto da una maggioranza il cui primo partito ha collezionato una lista di no alla costruzione di infrastrutture che è costata più della linea di credito del Mes.
Ai tempi del primo governo Conte la fattura dei no pentastellati, in termine di valore di opere bloccate per resistente locali e nazionali era arrivata a 60 miliardi. Ora, tra sì obbligati (come quello alla Tap) e partite ancora da giocare si scende intorno ai 55 miliardi.
Nella lista ci sono i 7,4 miliardi della pedemontana Lombarda, che oggi rientra nella lista cara al premier Giuseppe Conte, anche se a esponenti locali del M5s non risulta («Una sparata mediatica», per esponenti del Movimento), i 2,2 di quella Veneta che a suo tempo fu bloccata da Toninelli. Poi i 4,2 miliardi della Gronda di Genova, bloccata a livello locale e nazionale , gli 1,8 della Tirreno-Brennero, compresa nella lista «Italia veloce» del ministro delle Infrastrutture, ma criticata ancora oggi dal M5s.
Poi tante opere ferroviarie, compresa la famosa Tav Torino Lione. Cavallo di battaglia del M5s, fa parte della lista del governo, ma rischia di non progredire visto che non è previsto un commissario. Costo di un probabile no di fatto, 8,6 miliardi.
Nel conteggio fino a poco tempo fa c'era anche la Tap. Gasdotto di 878 chilometri, che attraversa il Mar Caspio e l'Adriatico per approdare in Puglia. Costo dell'opera 4,5 miliardi. È alle ultime battute: ad agosto l'immissione del gas nella rete italiana e a ottobre, la consegna del gas ai clienti che hanno sottoscritto i contratti di fornitura. Il M5s aveva detto No, ma poi, già due anni fa, ha cambiato idea alla luce del conto dei possibili risarcimenti: circa 20 miliardi. Se il M5s ce l'avesse fatta il conto delle opere bloccate sarebbe salito a quota 80 miliardi.
Oltre alla costo del «non fare», nel conto del M5s vanno messi i tanti provvedimenti approvati e in vigore, quelli di bandiera poi naufragati alla prova dei fatti.
Il primo decreto economico firmato dai cinque stelle, il «dignità», ha ingessato il mercato del lavoro in una fase di recessione. Con l'ultimo decreto rilancio è stata parzialmente fermata grazie a deroghe. Prima dell'entrate in vigore, il decreto è costato migliaia di contratti a termine non rinnovati.
Lo stesso reddito di cittadinanza, è nella lista delle «opere» da smantellare che si legge in trasparenza nel Programma nazionale di riforma stilato dal ministro dell'Economia Roberto Gualtieri. Serve uno strumento che accompagni al lavoro, non un sussidio. Si sapeva anche prima, ma le ragioni della politica 5stelle sono prevalse su quelle dell'economia.
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