L'assemblea a porte chiuse dei vescovi italiani. Lunedì della scorsa settimana. Al papa, che va a briglia sciolta, sfugge una battuta infelice: «C'è già troppa frociaggine in giro». Il tema in discussione è l'ammissione dei gay nei seminari; quel che colpisce non è l'espressione in sé ma che qualcuno la faccia uscire da quell'ambiente ovattato come una freccia avvelenata. Prima Dagospia, poi il sito di Repubblica, infine è il giro del mondo.
C'è chi improvvisamente immagina un papa omofobo. Ma questa versione non tiene perché Francesco ha aperto a gay e trans nella Chiesa, sdoganandoli come padrini e madrine per i Sacramenti e testimoni per il matrimonio. Resta il no del Vaticano ai gay nei seminari, anche se c'è una scuola di pensiero, anche in Italia, che la pensa diversamente.
Bergoglio, che è argentino e maneggia pur sempre l'italiano come una seconda lingua, condensa con quel frasario urticante il proprio punto di vista. Nessun cambiamento in vista, si prosegue nel solco tracciato a suo tempo da papa Ratzinger. E approfondito con le Istruzioni del dicastero per il clero del 2015 - ripetute nel 2016 - in cui si afferma: «La Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al seminario e agli ordini sacri le persone che praticano l'omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay».
Ma naturalmente ci sono vescovi e teologi che hanno un'idea diversa e questo dibattito ha animato l'assemblea d'autunno dei vescovi italiani. In quell'occasione è stato approvato un nuovo regolamento dei seminari, la Ratio formationis sacerdotalis, in cui si esplicita di nuovo il no ai seminaristi gay.
Un'ala della Chiesa però sviluppa una prospettiva diversa: il punto si lega in qualche modo alla moralità della persona e tradotto in soldoni si può riassumere così: come l'eterosessuale anche l'omosessuale che vuole dedicarsi a una vita per gli altri, nel segno di Cristo, seguirà la bussola dell'astinenza. E se un giovane sceglie la strada difficile della rinuncia, allora la differenza dovrebbe cadere e tutti dovrebbero essere ammessi.
Ma questa impostazione non ha fatto breccia ed è rimasta minoritaria. La questione torna nella riunione di primavera, in Vaticano. Il Papa, che viene dall'altra parte del mondo, scherza e se ne esce con quel gergo da bar che qualche mano appunta subito sul suo taccuino.
Si sa, il magistero di Francesco viene giudicato a seconda degli argomenti: è considerato un progressista illuminato quando denuncia la povertà dilagante, diventa un bieco reazionario se tocca il tabù dolorosissimo e devastante dell'aborto. Un giorno è applaudito, l'indomani delude i benpensanti. Certo, usa spesso un linguaggio colorito e fuori da ogni protocollo, ma resta la sua umanità dialogante, di più colma di empatia, verso il mondo e le sue piaghe. È sua l'idea della benedizione alle coppie irregolari e omosessuali o lesbiche che tanto clamore ha suscitato. E restano scolpite le sue parole: «Chi sono io per giudicare un gay?». Abbraccio sul piano pastorale, nessuno spostamento su quello della dottrina.
Qualcuno però vuole indebolirlo.
Forse perché non rientra negli schemi. Forse per la simpatia verso Giorgia Meloni. Forse per il gusto del chiacchiericcio che tutto corrode. E contro cui proprio Bergoglio ha tuonato. È questa la grande malattia di oggi, anche nei luoghi più insospettabili.
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