Il paradosso del grillismo: è in crisi e gli altri lo imitano

Calano nei sondaggi, ma la loro schizofrenia politica ha contagiato le istituzioni. Come nel caso Gregoretti

Il paradosso del grillismo: è in crisi e gli altri lo imitano

Alla buvette di Montecitorio, nel primo giorno del digiuno collettivo dei parlamentari della Lega contro la decisione della Giunta per le autorizzazioni del Senato di proporre la messa in stato d'accusa di Matteo Salvini per sequestro di persona per la vicenda della nave Gregoretti, presa nella commedia dell'assurdo del nostro Parlamento con i soli voti della Lega, Cristian Invernizzi, deputato del Carroccio, si attarda davanti alle pizzette. Poi torna sui suoi passi, ligio alla dieta forzata indetta dal Capitano, ma dubbioso sull'efficacia della trovata. «Proprio una grande strategia!», esclama senza dissimulare l'ironia mentre guarda con aria malinconica un panino: «Chi ci capisce è bravo. Sono saltati tutti gli schemi».

Poco più in là, in mezzo al Transatlantico, qualche dubbio lo nutre anche la testa d'uovo del Carroccio, Giancarlo Giorgetti: «Una mezza follia. Io ho consigliato Matteo di dire sì al processo, ma per far sfilare davanti ai giudici Conte, Di Maio Certo, però, non bisognava porla così, ci avrei pensato un po' su, prima di far votare da soli i nostri a favore del processo. Questa è l'Italia». Nello spettacolo andato in scena l'altro ieri in Senato, per la verità, ha suscitato perplessità non solo il comportamento leghista, visto che alla fine tutti i protagonisti, in ossequio al tatticismo, hanno fatto il contrario di ciò che hanno sempre teorizzato: certo il Carroccio ha acconsentito, in una logica strumentale, a dare il via libera al processo il suo leader, ma nel contempo tutti i partiti della maggioranza, dopo aver predicato per settimane la messa in stato d'accusa dell'ex ministro dell'Interno, alla fine, per non trasformarlo in un martire prima delle urne emiliane, hanno disertato il voto. Gli unici coerenti con le loro posizioni sono stati i forzisti e gli uomini della Meloni, che si sono schierati, come hanno sempre detto, per il «no» al processo. Questa contraddizione palese, al di là delle motivazioni, insinua il dubbio, o almeno lo fa aleggiare, che forse l'incongruenza e la spregiudicatezza 5 Stelle, in sintesi il loro costume politico, abbiano fatto scuola proprio quando il movimento è andato in crisi (ieri altri due deputati sono scappati dal gruppo grillino). «Alla fine i grillini osserva con una punta di sarcasmo, Lorenzo Fioramonti, anche lui fuoriuscito dai 5stelle per fondare Eco hanno insegnato a tutti. Tutti improvvisano, nessuno capisce un cavolo e alla fine esce qualcosa dal caos. Anche il cosiddetto Capitano si rifà a questo modello». «Ci stanno venendo tutti dietro è la battuta divertita, invece, di un ortodosso come il facilitatore Luca Carabetta come i topolini che seguono il pifferaio magico». «Purtroppo è proprio così osserva laconico un politico navigato della Seconda Repubblica, Walter Veltroni, mentre guarda le rovine della Terza -: il grillismo è entrato nel costume politico!».

Appunto, il paradosso è palese: mentre il movimento si dibatte nella sua crisi, alle primarie per le regionali di Liguria e Toscana votano metà dei militanti dell'altra volta e Di Maio disperato minaccia ogni momento le dimissioni (oggi sembra il giorno buono, nella logica surreale tutta pentastellata di abbandonare il comando alla vigilia di una tornata elettorale), ebbene, tutti si sono messi ad imitare i grillini in Parlamento. Uno, infatti, il voltafaccia dei 5stelle sul caso della nave Gregoretti, cioè quello di chiedere la condanna di Salvini dopo averlo salvato su una vicenda analoga come quella della Diciotti, se lo aspettava, vista la natura del movimento; ma vedere la maggioranza di governo disertare, in pieno stile grillino, la riunione della Giunta, sia pure in polemica con le decisioni della presidente Casellati, proprio no. Come pure la decisione del Capitano di far votare i suoi soldati contro se stesso, per esigenze mediatiche, è un altro triplo salto carpiato sul piano della liturgia istituzionale: tanto per dirne una, ora la leghista Erika Stefani dovrà recitare in Senato la relazione per la messa in Stato d'accusa del suo segretario.

Insomma, siamo al ridicolo se non lo abbiamo già superato. E in questo momento di grande confusione, ne va di mezzo l'immagine, già compromessa, delle Istituzioni. È un timore che condividono in molti di ogni colore. «I 5stelle si lamenta l'azzurro Andrea Ruggeri hanno vinto la battaglia culturale. Anzi, subculturale. Tutti si inchinano alla comunicazione fine a stessa». «Siamo ammette il piddino Matteo Orfini al dadaismo più spinto. Al grillismo più estremo. Nulla ha senso». «Sembra quel film di Akira Kurosawa, Rashomon, in cui si confondono tante verità», è il paragone che azzarda l'ex segretario della Cgil, Guglielmo Epifani. «Si stanno ispirando al grillismo si lamenta il renziano Gennaro Migliore proprio quando, per colpa dei suoi continui testa coda, il movimento sta sparendo. Sul piano dei consensi questo tatticismo esasperato sarà irrilevante, ma sul piano della reputazione sarà devastante. Quelli fuori dal Palazzo diranno: che bella combriccola di teste di c!».

In fondo non ha tutti i torti. «Ormai sfoga il suo pessimismo il piddino Umberto Del Basso De Caro il virus grillino è stato inoculato nelle istituzioni. Solo che mentre la Lega può permettersi queste giravolte perché ha un leader come Salvini, noi che abbiamo Zingaretti, che al massimo potrebbe giocare nella Canavese, dove andiamo?!».

Sarà, ma anche l'atteggiamento del leader della Lega non è esente da critiche. Anzi. «Magari questa strategia lo pagherà sul piano dei consensi spiega il consigliere della Meloni, Guido Crosetto ma ne vanno di mezzo le istituzioni. Perché la questione non riguarda solo Salvini ma il suo ministero. Non si può mettere sotto processo il Viminale!». E proprio questa particolare spregiudicatezza istituzionale del leader, quasi di stampo grillino, suscita qualche riserva anche nella vecchia guardia del Carroccio. Non è la prima volta. In agosto Salvini aprì la crisi di governo per poi arrivare a proporre il colmo - un governo Di Maio.

E ancora: dopo aver approvato in tutte e quattro letture in Parlamento la legge costituzionale di riduzione dei parlamentari, il Capitano ha spinto i suoi a raccogliere le firme per il referendum confermativo, con il fine dichiarato di favorire le elezioni anticipate. Al capogruppo dei senatori Romeo, che chiedeva lumi sull'atteggiamento che poi il partito avrebbe preso nel referendum, Salvini ha risposto: «Poi vedremo». E ora la trovata per cui la Lega da sola nella giunta delle elezioni in Senato ha chiesto il processo per il proprio leader, sempre in chiave elettorale. In questa diversità di opinioni nel Carroccio c'è, soprattutto, una diversa lettura della realtà: mentre Salvini è ancora convinto che si possa andare alle urne anticipate, gli altri no.

«Ma secondo voi questi è la domanda che quotidianamente Giorgetti pone dentro il Carroccio metterebbero in crisi il governo e andrebbero alle elezioni, proprio alla vigilia della nomina dei nuovi vertici dell'Eni?!».

La risposta l'ha offerta qualche giorno fa il ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D'Incà, ad un deputato azzurro, Dario Bond: «C'è un patto tra noi e il Pd. Ci manderanno via solo se la Libia ci attaccherà!». In poche parole: le elezioni sono un'ipotesi dell'assurdo.

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