Parlamento inerte sullo scandalo del "sistema". Resta aperta la piaga delle toghe politicizzate

In agenda non esiste un progetto per porre rimedio ai mali scoperchiati dal caso Palamara. Si attende solo il referendum promosso da Lega e Radicali

Parlamento inerte sullo scandalo del "sistema". Resta aperta la piaga delle toghe politicizzate

Ce lo chiedeva l'Europa ed è arrivata. Ma gli italiani e anche buona parte del Parlamento attendevano altro. D'accordo, va bene una giustizia che acceleri sui processi e tolga qualche tornante, e va ancora meglio abolire il mostriciattolo della prescrizione, ma nell'emiciclo che ora vota come in un catena di montaggio i provvedimenti voluti da Draghi c'erano altre aspettative: dopo il caso Palamara e l'emergere di scandali e lottizzazioni, si era capito che Camera e Senato volessero mettere mano seriamente all'architettura giudiziaria e non solo dare una mano di vernice ai locali impresentabili. Ci sarebbe da reinventare il Csm, sprofondato in una crisi di credibilità senza precedenti e decimato dalle dimissioni dei suoi membri, e sarebbero da rivedere il sistema delle nomine e i confini delle correnti, per evitare le derive degli ultimi anni e le degenerazioni cui abbiamo sgomenti con cadenza inquietante.

Ma questa urgenza sembra essere svanita nel Palazzo che porta la Cartabia sul traguardo a tempo di record. Aspettiamo sempre, come nelle favole, una magistratura meno politicizzata e più garantista, con un corredo di norme meno ingarbugliate e contorte.

Temi che ritornano in un girotondo che assomiglia al gioco dell'oca. Pareva che le forze politiche, non solo la destra, volessero davvero affrontare senza tic e riflessi ideologici questa interminabile crisi, ma l'agenda del Parlamento è piatta.

Matteo Renzi ha tenuto ieri dal suo scranno di Palazzo Madama l'ennesima requisitoria contro il sistema che ha travolto anche la sua famiglia, trasformando i suoi genitori in una coppia alla Bonnie e Clyde; autorevoli giuristi, come Sabino Cassese, e politici carismatici della sinistra, come Luciano Violante, hanno dettato il metronomo delle riforme che non possono aspettare.

Ma al momento, e speriamo di essere smentiti già domani, il cantiere legislativo è vuoto. Si procede in ordine sparso o ci si accontenta del maquillage firmato dalla Guardasigilli. Dietro l'angolo c'è l'elezione del presidente della Repubblica e forse, chissà, nuovi assetti di governo. Le riforme di sostanza, quelle che dovrebbero per forza di cose toccare la seconda parte della Costituzione, languono e fra queste ci sono anche quelle della giustizia, pure attese da buona parte della nomenklatura Pd.

Così la Lega e i radicali provano a far saltare la cassaforte del corporativismo raccogliendo le firme per i referendum che, combinazione, hanno trovato in queste settimane sponde e rilanci insospettabili. Ma la strada popolare, oggi così di moda per via della rivoluzione digitale, ad oggi non sembra aver dato carburante al motore della classe politica.

Certo, c'era già il dossier Cartabia e pure quello, in un Paese frammentato come il nostro, ha rischiato di saltare e si è inventata l'improcedibilità per disinnescare la prescrizione senza fine e l'ira dei 5 Stelle.

Meglio una piccola riforma che niente, ma dopo quasi trent'anni di chiacchiere e tentativi di cambiamento puntualmente affossati dal partito della conservazione, è arrivato il momento di voltare pagina.

Speriamo che la Cartabia sia solo l'antipasto di un ricco menu, non per punire i giudici ma per avvicinare la

giustizia ai cittadini. L'Europa, forse, è soddisfatta. Gli italiani no: se il Parlamento non si darà una mossa, saranno le urne a picconare il vecchio, anche se la Consulta potrebbe mettere fuori gioco due o tre dei sei quesiti.

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