Mario Draghi non è Giulio Andreotti. Il divo Giulio si faceva concavo e convesso a seconda delle convenienze. E abbracciava una filosofia spicciola del seguente tenore: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Draghi no: è e vuole apparire tutto d'un pezzo. Piuttosto che esporsi al martirio di San Sebastiano, trafitto di continuo dalle frecce pentastellate, è pronto a farsi da parte. Si rende conto che la politica non si fa con i sentimenti e i risentimenti. Ma lui ne ha le tasche piene. È disposto ad andare avanti solo se i vari settori della maggioranza dimostrino responsabilità. Altrimenti è meglio piantare baracca e burattini.
Così la pensa l'inquilino di Palazzo Chigi. Così dicendo però, per la prima volta non si pone in sintonia con Sergio Mattarella. Che mai come in questi giorni veste i panni del manzoniano Conte zio. Più Giuseppe Conte, questa fastidiosa mosca tze-tze, alza la voce e pone penultimatum, e più il presidente della Repubblica si sforza di troncare, sopire. Raccomanda calma e gesso. Se Draghi è pronto a farsi da parte, il capo dello Stato ritiene che sia preferibile, data l'aria che tira, arrivare alla fine naturale della legislatura. Fatto più unico che raro, la «creatura» Draghi dissente dal suo «creatore» Mattarella.
La verità è che il diavolo si nasconde nei dettagli. E in punta di diritto parlamentare sia Draghi sia Mattarella possono squadernare le loro ragioni. Afferma in sostanza Draghi: «I Cinque stelle almeno alla Camera hanno votato per appello nominale la fiducia per poi abbandonare l'aula al momento del voto segreto finale sul decreto Aiuti. Ma al Senato hanno disertato l'aula quando si è votato il provvedimento sul quale il governo aveva posto la fiducia. E senza la fiducia pentastellata io tolgo il disturbo».
Mattarella, non a caso è un professore di diritto parlamentare, la vede altrimenti. Potrebbe obiettare che l'articolo 49 del regolamento della Camera prevede due voti: prima la fiducia, e i Cinque stelle l'hanno votata, e poi la votazione finale. In omaggio, pensate un po', allo Statuto albertino che all'articolo 63 stabiliva che il voto finale dei provvedimenti avvenga a scrutinio segreto. Mentre l'articolo 161 del regolamento del Senato prevede una sola votazione sulla fiducia e sul provvedimento. Perciò si presume che se le regole a Palazzo Madama fossero le stesse di Montecitorio, i senatori pentastellati avrebbero votato la fiducia e se la sarebbero filata all'inglese nella votazione finale del provvedimento. E poi si dà il bel caso che Conte si è guardato bene dal ritirare la delegazione pentastellata dal governo. Un bluff, il suo. Tanto più che il Senato ha rinnovato la fiducia al governo con 172 sì e 39 no. Le cose stanno come le vede Mattarella? Non c'è che un modo di appurarlo: il rinvio alle Camere del governo per verificare la sussistenza del rapporto fiduciario.
E infatti dopo dimissioni che hanno del paradossale Draghi si presenterà alle Camere per una conferma della fiducia iniziale. Conte non chiede di meglio, dopo aver fatto la faccia feroce. Così, per dirla con Andreotti, alla fine tutto si aggiusta.
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