Ci sono voluti quindici anni per arrivare a capire, finalmente, quello che il centrodestra sostiene da sempre: la sinistra è antipatica, sta sulle scatole alla gente, non è attrattiva, è fatta di persone grigie e affogate nella loro boria e arroganza, ricchi borghesi che niente hanno a che fare con i poveri che dicono di difendere. Ed è per questo che nessuno la vota più. Il big bang del Partito democratico è arrivato, dopo la batosta che ha preso alle ultime elezioni, e da quei simpaticoni dei suoi dirigenti, primo tra tutti Enrico Letta, in largo del Nazareno, arrivano messaggi da psicodramma. Innanzitutto, credono che per rifondare un partito basti cambiargli il nome e il simbolo. E si rifanno vive le solite facce torve che pensavamo ormai felicemente in pensione come quella di Rosy Bindi, di Pier Luigi Bersani, di Gad Lerner. Nessuno ha il coraggio di dire che per ripartire da zero non serve cambiare nomi, ma loro.
Qualche timido mea culpa arriva dal sobrio Gianni Cuperlo, presidente della Fondazione Pd, neo rieletto parlamentare dem dopo cinque anni di pausa forzata «causa Renzi», dice lui, il quale si spinge ad affermare, su La Stampa, che «noi stiamo letteralmente sulle scatole a una parte della società italiana» e che «si è spezzato un rapporto e un legame di fiducia con una parte del Paese». I motivi sono tanti: «Da 16 anni non abbiamo vinto le elezioni e per 10 anni siamo stati al governo, con buone ragioni e facendo anche buone cose. Ma questo ha trasmesso la percezione di un partito di establishment e di potere». Inoltre «paghiamo il prezzo di errori e arroganze, sul jobs act, sull'articolo 18, sulla legge elettorale, sul taglio della rappresentanza parlamentare. Quindi stare sempre al governo e avere questa arroganza nelle riforme provoca una situazione in cui non basta nemmeno avere un programma di sinistra». Anche Filippo Andreatta, figlio di Beniamino, va giù duro: «Il Pd è in sintonia con la borghesia delle Ztl; non fa più breccia tra i lavoratori».
Nel 2022 hanno scoperto che l'acqua può diventare anche calda, proprio dopo il risultato più catastrofico della storia del Pd. Sarebbe bastato farsi un giro al mercato per capirlo invece di restare arrampicati sull'Olimpo. «Davanti ai cancelli di Mirafiori l'atteggiamento degli operai lo percepivi nello sguardo, con l'accusa che tu fisicamente non c'eri più stato in quel luogo», continua Cuperlo.
Un partito allo sbando e disastrato che non ha più capo né coda, senza una direzione, senza senso, tra antichi livori (Cirinnà), tra chi evoca una «scissione», chi il cambio di nome e simbolo, chi tenta falsi «innamoramenti» per Elly Schlein alla segreteria che però viene ritenuta «poco governabile» e non ha la tessera dem in tasca, tra chi si autocandida (Paola De Micheli).
Cuperlo stronca poi la Bindi che, come Letta, chiede al partito di sciogliersi, richiamando «un vero congresso costituente». In una lunga lettera agli iscritti dem, il segretario uscente definisce il congresso che verrà «costituente» e delinea quattro grottesche fasi. La prima è definita «chiamata». La seconda è quella dei nodi da sciogliere. La terza e quarta porterà alla scelta del nuovo segretario. Ma il «congresso non deve essere un casting», avverte Letta. Potranno rientrare i transfughi di Articolo 1 (Speranza e Bersani) e il partito potrà cambiare nome che con un eccesso di creatività potrebbe chiamarsi «I Democratici».
Cuperlo è contrario alla costruzione di una cosa rossa: «Non ora, con una destra così forte...». Ma si sa, chi dice la verità in politica nel minore dei casi viene inascoltato. Ma più probabilmente allontanato.
L'ipotesi più plausibile è che per i prossimi cinque anni il Pd faccia quello che sa fare meglio: un congresso permanente con una serie infinita di candidature autoreferenziali. Ma il sindaco di Firenze Dario Nardella mette in guardia tutti: «Un congresso ordinario non basta, serve un reset totale».
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