Joe Biden non ha fatto in tempo a godersi il successo dell'eliminazione di Ayman Al Zawahiri, che si trova alle prese con quella che è la crisi diplomatica più grave della sua presidenza. Dopo settimane di speculazioni, polemiche e furiosi avvertimenti cinesi Nancy Pelosi è atterrata a Taiwan, mettendo in imbarazzo la Casa Bianca e compromettendo il già fragile equilibrio tra Washington e Pechino, che ieri in tarda serata ha convocato l'ambasciatore Usa Nicholas Burns esprimendo «ferma condanna». Tra i segnali (inquietanti) che hanno preceduto il suo arrivo trionfale all'aeroporto Taoyuan, con tanto di folla festante e grattacieli illuminati, un allarme bomba nello scalo e un attacco hacker al sito web della presidenza taiwanese. Si è trattato forse di un assaggio di quanto Pechino è disposta a mettere in campo nei prossimi giorni, per rispondere alla «violazione dell'integrità territoriale e della sovranità della Cina» rappresentata dalla visita della terza carica istituzionale Usa nell'isola. Oggi si annuncia come un'altra giornata da «bollino rosso», con il previsto incontro tra Pelosi e la presidente taiwanese Tsai Ing-wen. Speaker e presidente Usa dovrebbero remare dalla stessa parte, per evitare imbarazzi all'amministrazione e al Paese. L'ambasciatore a Washington Qin Gang, diplomatico, ribadiva quanto già minacciato da Pechino: «Il nostro esercito non rimarrà a guardare, ci sarà una risposta forte, non si può umiliare il popolo cinese». Nel coro urlato di voci minacciose si inseriva anche Mosca, che attraverso la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, accusava Washington di «destabilizzare il mondo». Proprio il tema dell'«umiliazione», evocato dall'ambasciatore Qin, è la chiave per comprendere la reazione di Pechino, che considera parte integrante del proprio territorio l'isola ribelle. Soprattutto, serve a capire cosa potrebbe passare per la testa di Xi. Il leader, già alle prese con un'economia che rallenta e con l'impopolarità scatenata dai continui lockdown, mai come ora può rischiare di perdere la faccia. Tra pochi mesi si presenterà davanti alle migliaia di delegati del Congresso del Partito comunista per chiedere un inedito terzo mandato alla guida del Paese. Non può permettersi alcun cedimento davanti alle «provocazioni» della superpotenza rivale. E poco conta che lo stesso Biden, nella telefonata di pochi giorni fa, lo abbia rassicurato sul fatto che la politica di Washington dell'«Unica Cina» «non è cambiata». Concetto ribadito poco dopo l'arrivo della Pelosi a Taiwan.
«Non sosteniamo l'indipendenza di Taiwan» spiega la Casa Bianca, sostenendo «il diritto» della speaker a visitare l'isola. Parole che non hanno placato gli animi, se i media cinesi annunciavano che di lì a poche ore avrebbero avuto inizio una serie di manovre militari attorno a Taiwan, con tanto di impiego di missili. Poco dopo, il ministero della Difesa di Taiwan denunciava la violazione dello spazio aereo da parte di 21 caccia. In tutto questo, in molti si domandano: perché Pelosi non ha rinunciato, evitando uno showdown che rischia di sfuggire di mano? A rispondere ci ha provato la stessa speaker, in un editoriale sul Washington Post. La visita «fa onore all'incrollabile impegno dell'America a sostegno della vibrante democrazia di Taiwan», «la visita non contraddice la politica americana nei confronti della Cina». La verità, forse, è che l'82enne Pelosi, al termine della sua parabola politica, punta ad affermare la sua eredità politica. E per farlo, punta a forse ripetere il gesto eclatante compiuto nel 1991. Due anni prima, c'era stata la Strage di Tienanmen.
In visita a Pechino, Pelosi, allora al secondo mandato, si recò sulla piazza e mostrò uno striscione che commemorava gli studenti uccisi. Ma la Cina di allora non era ancora la superpotenza economica e militare di oggi e la sua postura globale era assai meno invadente.
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