Per dirigere catene di hotel, squadre di calcio, case farmaceutiche, televisioni, osservatori astronomici, festival internazionali, produzioni cinematografiche, vige un solo sacrosanto principio: quello della competenza e della competizione. Puoi essere bianco, rosso, giallo, nero, americano, russo, cinese, inglese o italiano, non importa: vale solo ciò che sai fare e quanto sai competere. Il mondo italiano dei musei e dell'arte è ancora, invece, in gran parte dominato dal potere dello Stato, non dal libero mercato e dalla concorrenza. Per cui per dirigere i più grandi musei del paese, non bisogna solo essere competenti, ma essere italiani. Dopo 16 decisioni del Tar e 6 del Consiglio di Stato, dopo un'insopportabile lungaggine burocratica e procedurale, fatta di sentenze, disposizioni, pastoie normative, riletture incrociate del Codice dei Beni culturali, il Consiglio di Stato si è nuovamente espresso e ha bocciato la nomina di stranieri alla direzione di importanti musei. Per guidare gli Uffizi o Brera è «imprescindibilmente necessaria la cittadinanza italiana». Giustificatamente il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, che non sarà ricordato se non per queste nomine che volevano internazionalizzare il settore culturale, si è detto molto amareggiato. La realtà è che lo Stato, nella cultura, impedisce quell'uguaglianza dei cittadini di cui, a parole, si dice garante. Nel mercato gli uomini gareggiano tra uguali. Nei musei italiani, per assurda decisione di Stato, la disuguaglianza vince sulla libera determinazione. Finché gallerie e pinacoteche pubbliche rimarranno nelle mani statali, avremo questo calvario burocratico, con scelte fuori da ogni logica, che marginalizzeranno sempre più l'Italia nella competizione internazionale dei saperi e dei meriti. Saremo sempre più isolati. Continueremo, cioè, ad avere molti turisti nei musei e nelle città d'arte (perché la bellezza non si può spostare), ma non saremo in grado di rinnovare la nostra immagine, le proposte, le sperimentazioni, i linguaggi, perché ci baseremo solo su quanto viene prodotto dai direttori di origine italiana.
Non ci sarà la volontaria contaminazione di conoscenze e di esperienze, che è proprio l'ingrediente segreto del mercato, ma una lenta anchilosi sorvegliata dall'autorità statale. L'italianità, in cultura, diventerà non un vanto, ma un discredito.
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