Sulla riforma del premierato imperversa il tema di un eccessivo potere del Presidente del Consiglio - eletto direttamente - e dell'assenza di adeguati contro-bilanciamenti. Punto rilevante ma non si devono sottovalutare alcuni contrappesi già presenti e altri che ben potrebbero attivarsi. Iniziamo dal fatto che la forma di governo resta di tipo parlamentare, anche se iper-razionalizzata, ossia il Parlamento è sempre in grado di far cessare il Governo. Esiste un meccanismo che mitiga la forza del Presidente eletto: secondo l'emendamento governativo, si procede a scioglimento solo se una delle due Camere sfiducia l'esecutivo. Se ciò non accade, infatti, si può formare un nuovo Governo anche senza la guida del Premier eletto. Non si tratta di poca cosa in un Paese nel quale solo i due Governi Prodi (1998 e 2008) sono formalmente caduti a seguito di un voto parlamentare. La nascita di un nuovo esecutivo, si ricordi, non può accadere né a livello regionale né a quello comunale dove diversamente dalla riforma nazionale quando un governo muore si torna sempre a votare per rieleggere legislativo ed esecutivo. Un elemento di mitigazione, questo, che non è inficiato dall'approccio «anti-ribaltone»: se è vero che la riforma prevede che a guidare il nuovo Governo debba essere un parlamentare «eletto in maggioranza», è anche vero che nulla vieta un esecutivo composto da forze politiche a maggior ragione in a caso di emergenza istituzionale non coincidenti con le forze che sostenevano il Premier eletto. Il sistema, come ho provato a dire nel volume Premierato all'italiana in uscita per Utet, preserva una via per gestire ogni evenienza, assegnando un ruolo rilevante al Capo dello Stato che, grazie all'emendamento di Enrico Borghi, è ordinariamente eletto con la maggioranza dei 2/3 (per sei scrutini). E proprio quest'ultimo sembra dotato di un maggiore ruolo di «puntellatore» dei meccanismi costituzionali: revoca e nomina i ministri (proposti dal Premier) conservando un potere di «intervento» sulla composizione dell'esecutivo e senza più la controfirma ministeriale per alcuni atti è più libero di impiegare alcuni poteri come argine ad una maggioranza con la rinascita di certi istituti oggi «addormentati» in un funzionamento della forma di governo che ha già ridotto il Parlamento a mero «sponda» dell'esecutivo; libero dalla controfirma, il rinvio presidenziale delle leggi approvate dalla maggioranza potrà essere uno strumento ordinario della dialettica istituzionale e i referendum abrogativi, oggi consegnati al dimenticatoio, potranno essere impiegati come freno al Governo anche per le facilitazioni digitali di raccolta delle firme e la libertà di fissare la data del voto (domani atto del solo Capo dello Stato). Certo, come suggeriscono il movimento «Io Cambio» e Nicola Drago, serve anche altro, come una legge elettorale adeguata con ballottaggio e garanzie per i regolamentati parlamentari e per lo «statuto dell'opposizione», ma si tratta di innesti ancora inseribili con la legge elettorale e con l'autogoverno del Parlamento.
Possiamo immaginare che per l'azione endemica delle coalizioni plurali di partiti, per l'immutato ruolo della Corte costituzionale e per la consuetudine dei soggetti istituzionali si possano definire argini al potere pro tempore che in Italia, come impone l'intero impianto della Costituzione, non può mai essere assoluto e senza freni.*Professore di Istituzioni di diritto pubblico, Università degli Studi della Tuscia
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