«Bisogna far fuori Matteo Salvini dalla politica e dal governo, per non essere complici». Il pizzino a mezzo stampa è a pagina 23 di Repubblica di ieri, firmato da Lirio Abbate. Arriva a un pugno di giorni dalla sentenza per il processo Open Arms che vede il leader leghista alla sbarra per aver impedito nell'agosto del 2019, da ministro dell'Interno, lo sbarco a Lampedusa di 147 immigrati a bordo della Ong spagnola per 19 giorni. La sinistra giudiziaria scatena le sue firme forcaiole per avvertire l'esecutivo di Giorgia Meloni: via Salvini per non avere guai peggiori, «al di là del processo penale e della decisione che i giudici prenderanno in camera di consiglio», scrive Abbate. Perché nell'era del verosimile a che serve la condanna della magistratura se il verdetto dei soliti giornaloni è già stato espresso? Salvini «ha mostrato i muscoli contro deboli e indifesi migranti inermi che fuggivano da Paesi in guerra e dalla disperazione, deboli e indifesi, solo per raccogliere voti», l'ha fatto in autonomia, escludendo gli altri ministri «generalmente con un post sui social», sottolinea il cronista di giudiziaria di Largo Fochetti. Così è deciso, l'udienza è tolta.
Perché stupirsi? Non è la prima volta - e non sarà l'ultima - che i giornalisti ciclostile delle Procure avvelenano i pozzi della narrazione con verdetti di colpevolezza che prescindono dalle reali responsabilità eventualmente accertate dalla magistratura. Nel 2014 l'Espresso a firma Abbate definì la scienziata di fama mondiale Ilaria Capua una «trafficante di virus», mortificando la professionalità e l'immagine dell'ex parlamentare, costretta a querelare il settimanale e ad allontanarsi dall'Italia: «L'inchiesta riportò il lavoro dei pm, nessuna diffamazione», decise il giudice di Velletri a cui la Capua si era rivolta. Come volevasi dimostrare.
Per Abbate è un deja vu, basti pensare ai giudizi tranchant sparati durante le fasi del processo a Mafia capitale, l'indagine portata avanti dall'allora procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone a carico del «Mondo di mezzo» guidato da Fabrizio Carminati detto Er cecato che vagheggiava di una Cupola mafioseggiante che decideva i destini della Città Eterna. Una tesi demolita dalle sentenze che a Pignatone - oggi infangato dall'accusa di aver coperto i boss palermitani che uccisero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino - è costata allora la poltrona di Procuratore nazionale antimafia. Per Abbate, autore con Marco Lillo del Fatto quotidiano di I Re di Roma destra e sinistra prendevano ordine dall'ex terrorista nero legato alla Banda della Magliana, ufficiale di collegamento tra neofascisti, ultras, soubrette, calciatori, attori, ma soprattutto boss e politici. Ma di mafia non ce n'era, a torto o a ragione, lo dicono le sentenze, chi se ne frega.
Con Pignatone Abbate ha un ottimo rapporto, lo si è capito quando per difenderlo da accuse vecchie di trent'anni e probabilmente indimostrabili il giornalista si è arrampicato sugli specchi: «La storia professionale di Pignatone è forte di successi nella lotta contro Cosa nostra e le sue collusioni, contro la ndrangheta e la corruzione nella Capitale e l'estrema destra di Massimo Carminati e i colletti bianchi. Tutto ciò si scontra con le accuse».
Quando si tratta di difendere gli amici e attaccare i nemici Abbate sa destreggiarsi bene, come gli dice
al telefono l'ex capo di Confindustria Antonello Montante, ex icona antimafia sbugiardato da una condanna perché con dossier e ricatti condizionava i politici: «Lirio, non usare la spada, usa il fioretto per questa cosa».
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