Il pm che sbaglia non paga. E neppure chiede scusa

In un paese dei sogni, questa mattina il dottor Giuseppe Pignatone, magistrato in pensione, dovrebbe alzare il telefono e chiedere scusa a Gianni Alemanno: per avergli dato del mafioso, del corrotto, del colluso

Il pm che sbaglia non paga. E neppure chiede scusa

In un paese dei sogni, questa mattina il dottor Giuseppe Pignatone, magistrato in pensione, dovrebbe alzare il telefono e chiedere scusa a Gianni Alemanno: per avergli dato del mafioso, del corrotto, del colluso. Per avergli rovinato la vita, i sette anni sul crinale dei sessanta che per tutti - e per un politico in special modo - indirizzano la fase finale della parabola pubblica. La parabola di Alemanno, grazie a Pignatone, è stata quella di un reietto. E bene ha fatto lui a farsi crescere la barba bianca, come a raccontare per immagini il suo invecchiamento interiore. Ma Giuseppe Pignatone quella telefonata non la farà. Perché la Procura della Repubblica di Roma, che sotto la sua guida lanciò l'offensiva battezzata «Mafia Capitale», il suo risultato lo ha raggiunto comunque. Ha dimostrato per l'ennesima volta che nessuno dei poteri costituzionalmente sanciti vale nulla di fronte allo strapotere giudiziario: a partire dal potere fondamentale, quello dei cittadini di scegliersi i propri governanti. Invece «Mafia Capitale», come tante altre indagini prima e dopo, racconta come sia agevole inventare accuse e indagati, e non pagarne mai il prezzo; e come - aldilà dei casi che pure esistono di inchieste nate fin dall'inizio come operazioni di killeraggio politico - ciò che conta è trovare un colpevole qualunque da immolare sull'altare della Giustizia («il filo di paglia in un pagliaio» di cui parlava Sciascia) per dimostrare in eterno la prevalenza del potere in toga su tutti gli altri poteri. Nella dimostrazione di questo assunto, l'innocenza o la colpevolezza dei singoli risulta, alla fine, irrilevante. D'altronde in caso contrario Pignatone - se non fosse stato nel frattempo impegnato ad attovagliarsi con Luca Palamara - le scuse ad Alemanno avrebbe dovuto presentarle già quattro anni fa, quando il primo giudice chiamato a occuparsi della vicenda archiviò l'accusa più infamante mossa all'ex sindaco, l'associazione mafiosa: sgretolata poi per gli altri imputati strada facendo, ma che per Alemanno si estinse già in udienza preliminare, evento quanto mai raro. Un ceffone alla Procura, che però insistette sulle altre accuse affossate anch'esse dalla sentenza di ieri della Cassazione. Ci sono voluti sette anni: e il dramma è che sette anni nel tariffario attuale delle sofferenze giudiziarie non sono nemmeno un record, e c'è chi l'onore perduto se lo vede riconoscere dopo vent'anni, o post mortem.

La ministra Cartabia è lodevolmente impegnata a scorciare i tempi dei processi, ma cosa sarebbe cambiato per Alemanno se si fosse visto assolvere sei mesi fa? La riforma vera sarebbe far pagare chi rovina gli innocenti. Ma anche questo è da paese dei sogni.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica