Posticipi, rilanci e dubbi. È l'ultima tortura jihadista

Un gioco psicologico sottile dietro la strategia dei terroristi che alimenta le paure israeliane. E l'incognita sul futuro della Striscia

Posticipi, rilanci e dubbi. È l'ultima tortura jihadista
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In arabo, dice Harold Rhode che ha lavorato molti anni al Pentagono come esperto del mondo islamico, si chiama «shamatah», un concetto che esprime lo speciale piacere che deriva dal vedere un altro essere umano soffrire. Hamas ne sa qualcosa, il suo gioco non conosce limiti: dopo il pogrom del 7 ottobre che aveva lo scopo preciso di gettare in uno stato di choc e lutto mai conosciuto prima lo stato ebraico, adesso pizzica con sadismo tutte le corde di una società occidentale che è forte militarmente, ma molto fragile nella sua concezione degli affetti e nella sua aspirazione alla pace. Ama la vita quanto Hamas ama la morte, come dicono loro stessi.

Il gioco psicologico è durissimo. Israele in queste ore vive un'altra fase di attesa come quella che nelle ore della sera di mercoledì, a tarda notte ha portato alle lacrime ogni famiglia in agonica attesa degli ostaggi, da quelle dei bambini di pochi mesi a quelle dei nonni. Adesso, mentre l'ironia della storia lo travestiva da diplomatico dai modi cortesi, il portavoce del Qatar, mallevadore dell'accordo e migliore amico di Hamas, di fronte alle famiglie che aspettano i loro cari e a tutta Israele, ha disegnato il nuovo momento della liberazione di 13 dei suoi, donne e bambini, dice Hamas, contro lo stesso numero moltiplicato per tre di detenuti palestinesi, per quattro giorni. Il vecchio accordo, si è detto, forse è saltato perché Hamas ha rifiutato a Israele che la Croce Rossa possa visitare tutti gli ostaggi. Ma l'uomo con la kefiah ben stirata ha anche consegnato un messaggio molto chiaro: dopo i 4 giorni stabiliti, ha detto, se vorrete andremo avanti fino a un cessate il fuoco definitivo. Il sottinteso: così Hamas resterà a Gaza, e non verrà distrutto.

Queste alternative disegnano per Israele drammatiche scelte. Su oggi Israele è cauta, contratta: alle 7 col cessate il fuoco, dopo i camion pieni di benzina e di generi vari al nord e al sud della Striscia, si aspettano i bambini a Rafah. Ma sarà poi vero? Tutto andrà come stabilito? Alle 4 verranno consegnati i cittadini? I loro nomi, noti da molti ore, pure per prudenza restano segreti. Qualcuno teme addirittura che Hamas abbia dato una lista fasulla e che il precedente stop sia stato programmato. Tutte le famiglie, anche quelle non in lista, hanno ricevuto un messaggio che dice quale sia la loro sorte, e prega di non credere alle fake news. Il gioco dei nomi ha tormentato il Paese con sussurri e grida. Dopo i 50 prigionieri, forse gli scambi continueranno: ma la guerra non verrà fermata, solo interrotta, ripete la leadership israeliana. Nessuno desidera fermare l'esercito: tuttavia i soldati adesso resteranno nella Striscia per un tempo imprecisato, potranno rompere la tregua solo in immediato pericolo di vita, e saranno molto più fragili di fronte alla possibilità, che come ha fatto durante altre tregue, Hamas approfitti per tentare di colpire, rapire, fare esplodere la situazione se gli conviene, sempre fidando sugli ostaggi nelle sue mani come elemento di deterrenza.

Da una parte quindi Israele è preoccupato di dovere contenere le trappole di Hamas, e dall'altra di non cadere in una tregua indefinita. Israele sa che deve concludere la guerra con l'eliminazione di Hamas.

Sa che anche Biden spingerà per ottenere una situazione di pace. Sa che l'Europa lo farà. Non capiscono che sono in pericolo se, dall'Iran a Hamas, agli Houthi agli Hezbollah, non si ristabilisce una deterrenza contro il terrorismo che parte da Gaza.

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