Una comunicazione giudiziaria che sconvolge il pomeriggio e a suo modo fa epoca. È Giorgia Meloni a darne notizia sui social: la presidente del consiglio è indagata per favoreggiamento e peculato in relazione al rimpatrio del comandante della prigione libica di Mitiga, Osama Njeem Almasri. Con lei sono sotto inchiesta i ministri della Giustizia Carlo Nordio e dell'Interno Matteo Piantedosi, oltre al sottosegretario alla presidenza del consiglio Alfredo Mantovano.
Almasri viene fermato a Torino il 19 gennaio perché ricercato dalla Corte penale internazionale. Il 21, dopo 48 ore vorticose e rimpalli di responsabilità fra l'Aia, la procura, la procura generale di Roma e il Ministero, viene scarcerato, espulso e rimandato in Libia su un volo di Stato. Le opposizioni si scatenano e sostengono che Meloni ha lasciato andare via un pericoloso criminale, ma nulla lascia presagire uno sviluppo così clamoroso. E invece si muove a sorpresa anche la procura di Roma, formalmente innescata da un esposto dell'avvocato Luigi Li Gotti, un uomo di legge vicino al centro sinistra e legale di numerosi pentiti. L'esposto è un assist perfetto per mettere in moto la procura di Roma guidata da Luigi Lo Voi su cui Meloni ironizza con sarcasmo ricordando che è «lo stesso del fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona».
E in effetti si nota un parallelismo fra le due vicende, anche se ovviamente si tratta di storie completamente diverse. Lì c'era il blocco a bordo di una nave della Ong Open Arms di più di cento migranti che il comandante dell'imbarcazione avrebbe voluto far sbarcare in Italia; qua c'è la gestione sicuramente pasticciata di una vicenda dai risvolti internazionali Con un peccato originale. Di natura formale: la documentazione per l'arresto del ricercato viene inviata in prima battuta all'autorità giudiziaria e non al Ministero, come si fa in questi casi.
Insomma, la vicenda parte male anche se la Corte penale sostiene di aver attivato tutte le procedure e in modo corretto. Di fatto, Nordio viene scavalcato e informato solo a cose fatte: in via Arenula nelle 48 ore successive arrivano due informative della procura di Torino e poi della procura generale della capitale.
Nordio però tace e a questo punto la corte d'appello non convalida e Almasri viene scarcerato. Subito dopo viene messo su un aereo, come succede per spacciatori e criminali, e rispedito a Tripoli, dove viene accolto con manifestazioni di giubilo.
Ora l'avvio del nuovo procedimento che scuote il Palazzo e accende le polemiche. L'Anm parla di «totale fraintendimento da parte di numerosi esponenti politici dell'attività svolta dalla procura di Roma la quale non ha emesso un avviso di garanzia nei confronti della presidente Meloni e dei ministri Nordio e Piantedosi ma una comunicazione di iscrizione che è un atto dovuto perché previsto dalla legge costituzionale numero 189».
In effetti, la norma impone di girare al tribunale dei ministri, visto che si tratta appunto di un reato ministeriale, la denuncia entro quindici giorni, «omessa ogni indagine». La procura non può indagare, ma fa da passacarte, vero e però è evidente che la procura interviene per qualificare giuridicamente gli eventuali illeciti e qui si è giocata, per ora, la partita formulando contestazioni così pesanti.
Dunque, arriva una denuncia che fa da detonatore e viene utilizzata per far decollare il fascicolo. La procura non fa indagini, perché è vietato ma anche perché i fatti avvengono alla luce del sole, ma dà all'esposto una veste giuridica. Era un atto dovuto?
In ogni caso nei prossimi giorni la palla passerà al tribunale dei ministri che avrà novanta giorni per indagare e giungere alla conclusione: archiviare o chiedere al parlamento l'autorizzazione a procedere. Una storia che ricorda appunto quella capitata a Salvini e chiusa con l'assoluzione dell'ex ministro dell'Interno poco prima di Natale.
Vedremo se il tribunale dei ministri, che lavora un po' come il vecchio giudice istruttore, si fermerà o andrà a bussare a Montecitorio.
Se così dovesse essere, sarà il Parlamento a dire sì o no a un eventuale processo ed è fin troppo facile prevedere che la Camera farà scattare il semaforo rosso e la magistratura si fermerà a quel tornante.
Ma lo scontro divampa violentissimo. Anche se l'Associazione nazionale magistrati insiste nel sostenere che tutti i passaggi sono, al momento, obbligati e senza margine di discrezionalità: c'era l'obbligo di «girare gli atti al tribunale dei ministri, dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati affinché questi possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltate».
La forma, dunque, sarebbe stata rispettata.
E infatti è sui contenuti che si misura lo sconcerto di gran parte dell'opinione pubblica: davvero si può parlare di favoreggiamento e peculato, si intende peculato d'uso, per i vertici dello Stato e per una vicenda del genere? Tutti gli elementi fanno pensare il contrario. Ma la macchina si è messa in moto e ora la bacchetta passa al collegio composto da tre membri.
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