Sono passati più di 12 anni dalle primarie del 14 ottobre 2007 che sancivano la nascita ufficiale del Partito Democratico. La “fusione fredda” tra Margherita, Ds e altre formazioni minori diventava “calda” con la vittoria plebiscitaria di Walter Veltroni, all’epoca sindaco di Roma.
Il Pd del 2007 e la vocazione maggioritaria di Veltroni
Veltroni che era stato vicepremier nel primo governo Prodi, con la sua elezione a segretario, si appresta a dare una spallata al secondo esecutivo del ‘Professore’ che, però, è bene ricordare, cadde per mano dell’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella. Nel famoso discorso del Lingotto di Torino, Veltroni, forte del 75% ottenuto col voto di oltre 3 milioni di italiani che partecipano a quelle primissime primarie, apre al Pd a ‘vocazione maggioritaria’. I suoi principali sfidanti, gli ex popolari Rosy Bindi (13%) ed Enrico Letta (11%), sono troppo deboli per dar vita a una qualsiasi minoranza interna. È curioso notare come a quella competizione partecipa anche un giovanissimo Mario Adinolfi che, nelle vesti di rottamatore ante litteram, cerca di dare voce ai quarantenni. È troppo presto per affrontare il tema del ricambio generazionale, soprattutto se il vincitore delle primarie è un uomo come Veltroni che fa politica dagli anni ’70. No, il vero (e tutt’ora irrisolto) problema è se costruire il centrosinistra o restare fedeli al vecchio centro-sinistra? Un piccolo, piccolissimo trattino che il neosegretario decide di togliere, in nome, appunto, della cosiddetta ‘vocazione maggioritaria’, ossia la presunzione che il Pd possa essere un partito ‘autosufficiente’. Ed è così che alle Politiche del 2008, per rompere la logica del Porcellum che tendeva a favorire la costruzione di coalizioni allargate, il Pd di Veltroni si presenta alleato solo dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Ma, nonostante il più che lusinghiero 33% del Pd (il risultato più alto per un partito di sinistra, dopo il 34% ottenuto dal Pci alle Europee del 1984), a vincere è “il principale esponente dello schieramento avverso”, come Veltroni amava definire Silvio Berlusconi. La segreteria dell’allora sindaco della Capitale si chiude bruscamente nel 2009, dopo la sconfitta di Renato Soru, presidente uscente, alle Regionali in Sardegna. Oggi Veltroni, a cui si ispirava il partito della Nazione di renziana memoria, appoggia la candidatura di Nicola Zingaretti che, invece, è sostenitore di un “centrosinistra largo e plurale”. In pratica l’esatto contrario del Pd a vocazione maggioritaria.
Anni 2009-2013, l'era Bersani
Subito dopo le dimissioni di Veltroni è Dario Franceschini ad assumere la carica di segretario ad interim del Pd fino alle primarie del 2009 che lo vedono contrapposto alla candidatura dell’ex diessino Pier Luigi Bersani, da sempre ostile alla cosiddetta ‘vocazione maggioritaria’. A fare da ‘terzo incomodo’ c’è l’allora senatore Ignazio Marino, sostenuto dall’amico Goffredo Bettini, il potentissimo eurodeputato che, poi, lo aiuterà a diventare sindaco di Roma. Dal voto dei gazebo del 2009 esce vincitore Bersani col 53%, mentre Franceschini si ferma al 34,3% e Marino al 12,5%. Una vittoria schiacciante che, nel giro di pochi mesi, si consolida anche in Parlamento quando Areadem, la corrente centrista dei franceschiniani, decide di sostenere la linea del nuovo segretario. Franceschini viene, quindi, scelto come capogruppo alla Camera. Come sappiamo, nel 2011, dopo la caduta del governo Berlusconi, il Pd di Bersani indossa le vesti di partito “responsabile” non chiedendo le elezioni anticipate ma appoggiando l’esecutivo tecnico di Mario Monti. Una scelta che danneggerà Bersani e darà modo al Movimento Cinque Stelle di attingere al bacino elettorale dei delusi del Pd. ‘Siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto’ dirà Bersani il giorno dopo le elezioni del 2013. Di lì a poco anche la sua segreteria termina sotto i colpi dei ‘101 franchi tiratori’ che impediscono l’elezione di Romano Prodi a presidente della Repubblica. Tutto il ‘cerchio magico’ di Bersani tradisce e punta sul nuovo cavallo vincente, quel Matteo Renzi che un anno prima aveva cercato di ottenere la premiership del centrosinistra con le uniche primarie di coalizione tenutesi finora. L’allora sindaco di Firenze non ottenne più del 40% ma pose una prima pietra per la costruzione della corrente renziana.
Il Pd di Matteo Renzi: dal 40 al 18% in 4 anni
Arriviamo così al 2013 quando, ormai, la corsa alla segreteria del Pd appassiona 2,8 milioni di italiani. A contendere la vittoria al favoritissimo Renzi ci sono gli ex diesse Gianni Cuperlo e Beppe Civati, il quale nel 2009 fu tra i promotori della prima Leopolda. La sfida viene vinta da Renzi col 67,5% mentre gli altri due contendenti racimolano rispettivamente solo il 18,2 e il 14,2%. Una vittoria ancora più schiacciante di quella ottenuta nel 2009 dall’ex segretario Bersani e che consente a Renzi di spodestare Enrico Letta ed entrare a Palazzo Chigi. La corrente renziana, che ha il suo baricentro nel ‘giglio magico’ di cui fanno parte Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Graziano Del Rio, cresce a vista d’occhio. I ‘giovani turchi’ di Matteo Orfini seguono le orme dei franceschiniani che, ancor prima che si celebrassero le primarie, erano saliti sul carro del vincitore. Renzi sembra non avere avversari, soprattutto dopo il boom del Pd alle Europee del 2014, ma a rompere ‘l’incantesimo’ è la sconfitta al referendum costituzionale del 2016. Da quel momento inizia la parabola discendente di Renzi che culminerà con il disastroso esito del Pd alle politiche di un anno fa (18%). Uno dei motivi di questa sconfitta, come ammetterà lo stesso Renzi, sarà la sua incapacità di uscire di scena. Dopo aver lasciato la guida del Paese a Paolo Gentiloni, l’ex premier, nel 2017, corre di nuovo per la segreteria sbaragliando la concorrenza dell’allora Guardasigilli Andrea Orlando e del governatore della Puglia Michele Emiliano. Nonostante un calo di partecipazione di 1milione di votanti, Renzi rivince col 70% ma, come abbiamo già scritto, si tratta di una ‘vittoria di Pirro’. La stessa che probabilmente otterrà oggi Zingaretti anche nel caso in cui superasse il quorum del 50% necessario ad essere eletto segretario senza dover passare dal voto dell’Assemblea del partito. Da questo punto di vista, lo staff del governatore del Lazio si dice ottimista, considerata anche l’alta affluenza che potrebbe già essere ben oltre le aspettative (circa 1 milione e mezzo di votanti).
Zingaretti, forte del sostegno di big come Franceschini, Gentiloni, Minniti (che in un primo momento doveva correre per il fronte renziano) batterà sia Maurizio Martina sia Roberto Giachetti e diventerà il nono segretario del Pd. E, a dispetto delle rassicurazioni di Renzi, si troverà a dover affrontare l’ennesima scissione…- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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