Se la cavano persino i boss mafiosi Leoluca Bagarella e Gaetano Cinà, prosciolti per prescrizione: ed è, a leggere il dispositivo della sentenza di ieri della Cassazione per il famoso processo Stato-Mafia, il dettaglio più illuminante. Perché la Cassazione non si limita a assolvere con formula piena e definitivamente l'ex senatore Marcello Dell'Utri, e con lui i carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, cui dopo dieci anni di processi viene restituito l'onore di servitori dello Stato; il guaio, per gli inventori e i fan del teorema sul patto occulto tra governo e Cosa Nostra, è che Bagarella e Cinà si vedono ridurre l'accusa di «minaccia a un corpo politico dello Stato» a semplice «tentativo». Tradotto: all'inizio degli anni Novanta la mafia provò a intimidire lo Stato, a costringere tre governi uno dopo l'altro a scendere a patti. Ma non ci riuscì. Lo Stato disse di no, e vinse la sua battaglia, catturando e seppellendo di ergastoli i Riina, i Provenzano e una intera generazione di gerarchi criminali.
Bastano due ore, ai giudici della sesta sezione, per prendere la decisione che segna una tappa cruciale nella storia giudiziaria italiana. Viene respinto il ricorso della Procura generale di Palermo contro la sentenza che il 23 settembre 2021 segnò la prima sconfitta degli inquirenti - da Antonino Ingroia a Nino Di Matteo - che sul teorema della trattativa avevano costruito le loro carriere: le pesanti condanne inflitte in primo grado - dodici anni a Dell'Utri, Mori e Subranni, dieci a De Donno - erano state cancellate. Già le motivazioni di quella sentenza mettevano in luce le innumerevoli incongruenze di una condanna basata solo sulle parole di due pentiti, Salvatore Cucuzza e Giovanni Brusca, e su una lunga serie di ipotesi, di presunte verosimiglianze, di collegamenti arditi di fatti slegati tra loro. Secondo i giudici d'appello, i tre alti ufficiali dell'Arma si erano mossi non per trattare la resa a Cosa Nostra ma unicamente «avendo effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all'escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati». La Procura generale di Palermo non si era arresa, e aveva presentato ricorso contro le assoluzioni di Dell'Utri e dei carabinieri, accusando i giudici d'appello di avere «contraddittoriamente ed illogicamente assolto gli imputati». Assoluzioni né illogiche né contraddittorie, dice invece ieri la Cassazione. Che l'intero castello fosse destinato a schiantarsi lo si era d'altronde capito già il 14 aprile, quando nell'udienza davanti alla Cassazione lo stesso rappresentante dell'accusa, il pg della Cassazione, aveva smentito il lavoro dei colleghi siciliani, e aveva chiesto l'assoluzione definitiva di Dell'Utri. Per Mori e gli altri carabinieri, era stato chiesto un nuovo processo d'appello: ma solo per smontare ancora più estesamente i sospetti a loro carico.
Nessun nuovo processo, dice ieri la Cassazione, la storia finisce qui. Si chiude con il colonnello De Donno che dice che la sentenza «ripaga di tante sofferenze e ingiuste umiliazioni»; e col generale Mori che invece si sente ripagato «solo in parte», perché «il mio mestiere lo conosco, so che se avessi sbagliato me ne sarei accorto»; e col suo collega Subranni, malato da tempo, con la figlia Danila che va giù pesante, «onore ai combattenti ma non ho il dono della dimenticanza, chi sbaglia deve pagare». E la soddisfazione più significativa viene dalla famiglia del magistrato che del patto scellerato tra Stato e mafia sarebbe stato la vittima più illustre, Paolo Borsellino. «Non abbiamo mai creduto che la strage di via D'Amelio sia stata fatta per accelerare la trattativa», dicono i familiari del giudice.
Nessuna reazione dal fronte
giudiziario, politico e giornalistico che aveva cavalcato per anni il teorema, mentre soddisfazione arriva da Forza Italia e da Italia Viva: «i giustizialisti - scrive Matteo Renzi - dovrebbero scusarsi o tacere per qualche anno». LF
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