Il processo sul "cortile" che ha sbugiardato i pm di Milano

L'inchiesta sul palazzo di piazza Aspromonte è stato il primo colpo al "sistema Milano". Ed è finito con la sconfitta in Cassazione

Il processo sul "cortile" che ha sbugiardato i pm di Milano
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Cos'è esattamente un cortile? È intorno a questa domanda apparentemente banale che si è consumato lo scontro tra la procura della Repubblica di Milano e le aziende costruttrici nel «caso pilota» delle indagini sull'Urbanistica nel capoluogo lombardo. L'inchiesta su un presunto abuso edilizio in piazza Aspromonte si è trascinata fino in Cassazione, e ha visto la sconfitta della Procura. Ma le indagini sono andate avanti, su piazza Aspromonte e su altri progetti, surriscaldando sempre di più il clima nei rapporti tra la Procura guidata da Marcello Viola e i poteri cittadini, quelli che - a partire dal sindaco Sala, dalle aziende costruttrici, dai professionisti - vivono le inchieste come un attacco frontale al «modello Milano», un rischio drammatico per lo sviluppo della metropoli.

«Delicata, complessa, articolata e controvertibile»: così viene definita, nelle sentenze che hanno dato torto alla Procura, la definizione di cortile. Ma alla fine arrivano a una conclusione netta: «Deve escludersi che l'area abbia i requisiti per essere definita un cortile». È un passaggio chiave, perché la legittimità del cantiere di piazza Aspromonte - dove al posto di uno stabile di dodici metri sorge un palazzo di sette piani per un totale di ventisette metri - era possibile per il Comune perché l'area non era definibile un cortile, e quindi non era soggetta a regole rigide sull'aumento delle cubature. Esattamente il contrario di quanto sostenevano gli inquilini dei palazzi davanti: «Quello era il nostro cortile, ci hanno creato un ecomostro».

I numeri delle inchieste sul mattone a Milano

La Procura si è schierata risolutamente al fianco degli abitanti della zona, ha incriminato progettisti e funzionari comunali, ha chiesto il sequestro dell'area. E ha fatto flop. Sequestro respinto a ripetizione, prima dal giudice preliminare, per due volte dal tribunale del Riesame, infine dalla Cassazione. Ogni volta le sentenze hanno dovuto districarsi in un ginepraio di norme, e proprio la loro complessità dimostra la difficoltà di usare la giustizia penale come strumento di governo dello sviluppo di una grande città.

Il passaggio cruciale, in questa vicenda giudiziaria, è contenuto nella ordinanza con cui il 30 giugno 2023 il Tribunale del Riesame ha dato per la seconda volta di fila torto alla Procura e ragione alla Bluestone, la società costruttrice di piazza Aspromonte. È l'ordinanza confermata e resa definitiva in gennaio dalla Cassazione, su richiesta non solo dei costruttori ma anche della Procura generale, che ha sconfessato i colleghi milanesi. Si parla di una determina del Comune che chiarisce i criteri che rendono possibili gli interventi. Secondo la Procura e il suo consulente, quella determina è figlia di «preordinata malafede degli organi comunali e dei suoi funzionari», un favore fatto ai signori del mattone. Invece per il tribunale il provvedimento del Comune «non è una iniziativa compiacente rispetto agli interessi dei costruttori» bensì «il tentativo di offrire al cittadino e agli organi deputati alla gestione dell'edilizia parametri trasparenti». Due modi diametralmente e culturalmente opposti, come si vede, di interpretare le norme e i rapporti tra Comune e cittadini. Quello che per la Procura è un sordido sotterfugio, per i giudici è uno strumento di trasparenza.

I giudici nel dare torto alla Procura analizzano non solo il comportamento della burocrazia comunale ma anche di due figure di punta della giunta Sala, gli assessori Pierfrancesco Maran (oggi eurodeputato) e Giancarlo Tancredi: e concludono che «le due autorevoli conferme della regolarità da parte dei vertici politici del settore amministrativo di interesse (quella di Maran prima ancora del rilascio) intervengono su una pratica edilizia che ha registrato per tre volte il parere positivo della Commissione Paesaggio».

I giudici riconoscono anche la buona fede dei costruttori, l'intervento di Bluestone «non era un atto di ardita pirateria ma aveva prospettive di realizzarsi a fronte della lettura che le previsioni in materia di cortile ricevevano dagli organi preposti».

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