I media ufficiali cinesi hanno annunciato che il ministro della Difesa Li Shangfu, del quale non si avevano più notizie dallo scorso agosto, è stato esautorato. Nessuna spiegazione è stata fornita né sulle ragioni della sua prolungata scomparsa né su quelle del suo siluramento e tantomeno sul nome del suo successore.
La vicenda di Li, che era stato nominato appena nello scorso marzo, è molto simile a quella del suo collega di governo Qin Gang, che in marzo era stato nominato ministro degli Esteri e che in luglio, improvvisamente, aveva dato le dimissioni (o più verosimilmente era stato costretto a darle) dopo che per un mese non era stato più visto in pubblico. Il siluramento dei titolari di due ministeri di prima importanza è stato seguito ieri dall'annuncio della rimozione di altri due ministri, quello delle Finanze Liu Kun e quello delle Scienze e Tecnologia Wang Zhigang. Quello che in una democrazia potrebbe essere definito rimpasto di governo ha però un diverso significato presso la dittatura comunista cinese. Va infatti ricordato che il numero uno del regime Xi Jinping, che è diventato presidente della Cina popolare nel 2013, ha progressivamente accentrato tutti i poteri nella sua persona, riuscendo a eliminare i suoi principali rivali politici (il più noto caso è quello dell'ambizioso boss comunista di Chongqing, Bo Xilai, spedito all'ergastolo già dieci anni fa con l'accusa ormai rituale di corruzione) e a cancellare le norme che prevedevano limiti temporali per la permanenza ai vertici del Paese. A buon diritto, perciò, si parla oggi del settantenne Xi come del dirigente comunista cinese più potente dai tempi di Mao Zedong, ovvero di un tiranno che nessuno al momento in Cina è in grado di contrastare.
Più che di un rimpasto, viste anche le modalità «notte e nebbia» con cui i ministri silurati scompaiono nel nulla, si deve parlare di «purghe» in stile maoista. Xi è stato al vertice del potere a Pechino per un tempo sufficiente a sostituire tutti gli uomini nei posti più alti di partito con suoi fedeli. Perciò, tutti i capi di dicastero rimossi in questi ultimi mesi erano stati scelti direttamente da lui, e nel caso di Li Shangfu in particolare avevano come punto di forza il fatto di essere stati oggetto di sanzioni personali da parte degli Stati Uniti, pratica ostile che Xi detesta. L'unica spiegazione convincente che si può dare della cacciata di fedelissimi come Qin, Li, Liu e Wang è la crescente paranoia di un tiranno che un po' nello stile che era stato di Stalin non solo non tollera il benché minimo dissenso interno, ma vuole che i suoi più vicini collaboratori sentano sempre sul collo il fiato di un capo che decide del loro destino politico come della loro stessa vita.
La tendenza all'accentramento del potere nelle mani di Xi Jinping è anche visibile nelle modalità con cui il dittatore cinese sta gestendo la profonda crisi economica seguita alla pandemia di Covid. Prima di annunciare, ieri, il lancio di una maxi emissione di buoni del Tesoro da 130 miliardi di euro destinata a sostenere la ripresa, Xi si è recato in visita una «prima» assoluta in dieci anni di presidenza alla Banca Centrale e alla sede del fondo sovrano nazionale.
Un ulteriore segno di leadership centralizzata e unificata, oltre che di volontà di stabilizzare i mercati, visto che in passato queste visite venivano compiute dal premier o da un suo vice, considerati competenti in materia economica.
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