Quando, il 16 giugno 1984 a mezzogiorno, Piero Ostellino si presentò alla redazione del Corriere da candidato direttore, attorno a lui spirava un'aria strana. In un'altra via di Milano si festeggiavano i dieci anni di vita del Giornale fondato da Indro Montanelli. Da dieci mesi l'ascesa di Craxi al governo aveva spezzato la strategia del Pci chiamata «compromesso storico». Il Corriere, traumatizzato dallo scandalo P2, aveva vissuto come un incubo la doppia realtà di via Solferino: all'esterno il direttore Alberto Cavallari veniva presentato dai media e dai salotti radical chic come il salvatore della patria, all'interno si praticava l'intimidazione nei confronti dei dissidenti e dei liberali. Ne aveva fatto le spese lo stesso Ostellino, boicottato e sollevato senza avvertirlo dall'inchiesta sul Pci che avrebbe dovuto condurre.
I giovani che si erano opposti, me incluso, dopo anni di invisibilità avevano l'impressione di tornare dall'esilio dopo la caduta di un regime. Sognavamo la rivincita. E quando Ostellino illustrò il suo programma anti ideologico, pragmatico, senza risentimenti neppure verso Cavallari, ne fummo quasi delusi. Avremmo voluto sventolare le bandiere, invece al discorso seguì soltanto un tiepido applauso.
Ma sbagliavamo, perché con lo stile della direzione era cambiata la sostanza. La redazione politica non allineata - che Cavallari aveva soppresso su indicazione del sindacato interno - venne ricostituita e noi tornammo ai nostri posti. L'autonomia dei desk, prima ridotti a passacarte ideologici, apparve per la prima volta in via Solferino. Una sensazione di libertà quasi intossicante coincise con l'arrivo di menti libere come quelle di Renato Mieli e Leonardo Sciascia.
Ma c'era un «ma», che non poteva sfuggire ai più attenti. Una buona parte delle redazione filocomunista, che negli anni precedenti si era trasformata quasi in un giornale nel giornale, si ritirò sull'Aventino e avviò la campagna di denigrazione del direttore. L'asse che si saldò rapidamente fra Pci e alleati, intellettuali di sinistra, Repubblica e L'Espresso, salotti radicali, sindacato interno dei giornalisti e dei poligrafici, iniziò metodicamente a minare la sua direzione.
A tutto questo Piero Ostellino oppose un disarmante disprezzo e nervi d'acciaio. Chiamò ad uno ad uno i giovani (a me chiese senza giri di parole che cosa volessi fare da grande) e li mise all'opera. Espose la sua idea di giornale dinastico, di cui si riteneva il naturale continuatore (famosa la frase: «dopo essere stato direttore del Corriere non c'è nient'altro all'altezza»). Un quotidiano, sostenne, non dev'essere né «istituzione» (come l'aveva definito Cesare Merzagora) né «servizio pubblico», e tanto meno «partito». Soltanto spirito critico. Si raccomandò più volte, nelle riunioni di redazione, di non raccontare niente «dal buco della serratura», poiché il vero «salotto buono» era quello di via Solferino. I vari Bernardo Valli, Lietta Tornabuoni, Ezio Mauro e tanti altri non potevano perdonarglielo. Il suo blasone aristocratico, che gli proibiva di contaminare il Corriere con giochi a premi e lotterie e gli imponeva di difendere il giornale da qualsiasi ingerenza politica esterna, non lo premiò in fatto di vendite. E cogliendo il suo lato debole, l'amministratore delegato della Rizzoli, Giorgio Fattori, poi destinato a diventare presidente, iniziò contro di lui una resistenza sotterranea.
Il salotto della moglie, la stilista Pupi Solari, contribuì sul lato mondano.L'avventura di un liberale in via Solferino si chiuse nel 1987. Ma la carta dei principî, che Ostellino aveva voluto, risuonò ancora un'ultima volta, senza varianti né pentimenti, nel suo discorso di commiato.
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