Come noto, l'art. 46, DL 17 marzo 2020, n. 18 (convertito in legge 27/2020, lo scorso 24 aprile) aveva disposto - oltre alla sospensione dei «licenziamenti collettivi» - il divieto assoluto per il datore di lavoro di licenziare per giustificato motivo oggettivo.
Il «decreto rilancio», sottoscritto mercoledì sera dal Consiglio dei Ministri, ha esteso il divieto dei licenziamenti, da due, a ben cinque mesi; termine entro il quale le imprese non possono procedere con licenziamenti collettivi o individuali per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 L. n. 604/1966 e sono sospese tutte le procedure di licenziamento in corso dal 23 febbraio u.s..
La nuova norma «concede» la possibilità all'azienda che abbia licenziato, nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020, di revocare «in ogni tempo» il licenziamento purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale decorrente dalla data in cui abbia avuto efficacia il licenziamento. In tal caso, «il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro».
Tale norma contiene ancora oggi molti dubbi interpretativi, che si auspicava potessero essere definitivamente chiariti con il nuovo decreto.
Ancora oggi, gli interpreti si domandano se tale divieto ricomprenda anche dirigenti e collaboratori domestici, figure alle quali non è applicabile la disciplina contenuta nell'art. 3, Legge n. 604/66, espressamente citata nel decreto.
Ancora non è chiaro se il «divieto» riguardi i recessi durante il periodo di prova, ovvero per superamento del limite massimo di conservazione del posto di lavoro durante la malattia oppure per scadenza dei contratti a termine.
Gli unici licenziamenti ad oggi sicuramente possibili sono solo quelli per ragioni disciplinari, per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo.
Molta incertezza permane anche in relazione alle possibili conseguenze della violazione di tale «divieto». Molti interpreti ritengono che la sanzione sia la nullità del licenziamento irrogato, con diritto dei lavoratori ad essere integralmente retribuiti per l'intero periodo intercorso dal recesso datoriale sino all'effettiva reintegra.
Ne consegue che il lavoratore avrà diritto alla reintegra ovvero in alternativa (ed a sua scelta) ad una indennità risarcitoria pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre al pagamento delle mensilità maturate dalla data del licenziamento fino alla reintegra, nella misura in ogni caso non inferiore a 5 mensilità.
La norma in commento non è l'unica, all'interno del dedalo di decreti che si è susseguito in questo periodo, ad aver modificato le leggi sui licenziamenti (sollevando non pochi dubbi di legittimità costituzionale).
All'interno del «Decreto liquidità» è previsto che le imprese che accedono ai prestiti agevolati «garantiti dallo Stato» debbono assumere «l'impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali» (art. 1, comma 2, lett. l). Sembrerebbe dunque che i licenziamenti effettuati dalle aziende che accedano a prestiti garantiti potrebbero essere nulli, se la «gestione degli esuberi» non venga gestita tramite accordo con le rappresentanze sindacali.
È evidente la gravità di simili provvedimenti che violano l'art. 41 della Costituzione, ossia la libertà di iniziativa economica delle imprese, e che non appaiono giustificabili neanche a fronte degli asseriti strumenti a tutela delle aziende.
È appena il caso di ricordare che la cassa integrazione, ancora in molte regioni non erogata, ha dei costi anche per le aziende, e che i «prestiti alle imprese», oltre a dover essere restituiti maturano interessi che devono essere pagati.
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