Un anno giusto giusto. Dodici mesi trascorsi in un estenuante rimpiattino. Tra bugie, depistaggi, «omissioni». Da un parte lui, Michele Buoninconti, 44 anni, il pompiere che si faceva passare per lo «stupidotto del paese»; dall'altra carabinieri e magistrati che cercavano di scoprire prima che fine avesse fatto sua moglie, Elena Ceste, poi chi l'avesse uccisa.
È stato a un passo dal farla franca quest'uomo proteiforme che mai mancava alla messa della domenica. Che lanciava appelli in tv perché la madre dei suoi quattro figli tornasse presto a casa. Che si mostrava disperato ma che nel suo diario, probabilmente sapendo che gli investigatori lo avrebbero scovato, alla data 24 gennaio 2014 scriveva un laconico «Scomparsa Elena». Un tentativo di confondere le acque? Per apparire davvero per quel tonto che non era? Se il teorema accusatorio si rivelasse esatto, la risposta è sì. Buoninconti apparterrebbe a una specie particolare, quella degli assassini diabolici. Gente quasi al di sopra di ogni sospetto, lucida, imperscrutabile e imperturbabile nell'azione come nella menzogna. Quasi immemore dei propri delitti, individui capaci di proseguire anonimamente nel loro metodico tran tran anche di fronte alle più feroci pressioni. «Mostri», ma miti. Il vigile del fuoco non ha mai ceduto di un passo. Ha sempre continuato a ripetere la sua verità «innocente». Fin dal giorno in cui denunciò la scomparsa di Elena, proseguendo nella sua un po'strampalata ma forse proprio per questo accettabile versione anche quando, a ottobre, si ritrovò a vestire i panni dell'indagato. E ancora adesso, dopo che l'altro ieri mattina, i carabinieri lo hanno ammanettato. Lunedì verrà interrogato ma è prevedibile che difficilmente ammetterà qualcosa. Contro di lui ci sono solo tanti indizi. Nessuna prova inconfutabile. Una partita a scacchi, dunque, che rischia di proseguire in tribunale.
I più giovani ricorderanno poco o nulla del caso Gucci. Il super manager fu ucciso nell'androne di casa nel cuore di Milano, mentre usciva per andare al lavoro. Era una mattina di primavera, 27 marzo 1995 per l'esattezza. Ci vollero due anni per scoprire chi e perché avesse sparato all'erede miliardario della celeberrima casa di moda. Un giallo dai risvolti internazionali, intersecato da piste e ipotesi di ogni genere: storie sentimentali, finanza, affari, questioni ereditarie e societarie. Gli investigatori viaggiarono per mezza Europa, cercando il bandolo dell matassa. La verità, decisamente più semplice, stava invece dietro l'angolo. A pochi passi dal luogo del delitto. In uno splendido attico di piazza San Babila, protetta quasi dalla sua inaccettabile banalità. Lì abitava con le due giovani figlie l'ex moglie di Maurizio Gucci. Non fosse stato per una boutade di troppo tra balordi, forse mai la Criminalpol sarebbe arrivata ad arrestare la donna. Patrizia Reggiani davanti agli inquirenti aveva mostrato sempre e solo dolore per la fine del marito. Bella e ricca proprio grazie agli assegni dell'ex, perché mai avrebbe dovuto ucciderlo? Vendetta, semplice folle vendetta. Uscita di prigione un anno fa, al Giornale ammis e: «L'avevo amato come una pazza, era il padre delle mie figlie. In quel momento della mia esistenza, però, ero convinta che un essere come lui non fosse degno di vivere». Un paio di killer, da lei pagati con l'intermediazione di una «maga», esaudirono il desiderio.
Quanti assassini incrollabili, quanta fatica per squarciare muri di menzogne imperforabili. Da Cogne, al delitto di Garlasco (Albero Stasi, condannato in Appello continua a proclamarsi innocente), passando per l'omicidio di Meredith Kercher a Perugia (ricordate Amanda e Lele?) o a quello di Melania Rea, la moglie del soldato.
Lui, Salvatore Parolisi, per un mese giurò in lacrime di amare la moglie, raccontò nei particolari i momenti della sua sparizione. Non arretrò mai di un millimetro. Dopo un mese fu arrestato. Per i carabinieri era stato proprio lui ad ucciderla. È stato condannato a 30 anni, anche in Appello. Ma non ha mai confessato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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